Local view for "http://purl.org/linkedpolitics/eu/plenary/2006-03-22-Speech-3-200"
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". – Signor Presidente, onorevoli colleghi, “Mangerai quando sarai competitivo” è lo slogan di un poster: sullo sfondo un ragazzo africano pelle e ossa. La frase è enfatica, ma sembra proprio che l’Unione europea stia, e questo è un eufemismo, sopravvalutando l’efficacia del commercio nella lotta alla povertà.
Si parla di diritti, di quelli stessi diritti per i quali in Europa ci siamo battuti, di quelli stessi valori su cui si fonda l’Unione europea. Il Parlamento europeo non può voler cancellare questi valori. Siamo in un momento cruciale della lotta alla povertà, dobbiamo anche rispondere agli obiettivi che ci siamo posti.
La relazione oggi in discussione è monca, il progetto prevedeva infatti alcuni punti in cui si mettevano in discussione gli effetti della liberalizzazione sull’economia dei paese in via di sviluppo. Diversi studi econometrici, un rapporto di
lo studio
di Sandra Polanski, pubblicato la settimana scorsa, hanno mostrato che molti paesi in via di sviluppo, soprattutto nell’Africa subsahariana, vivrebbero migliori condizioni oggi se non avessimo introdotto misure di liberalizzazione selvaggia.
Lo studio della Polanski, che analizza i vincenti e i perdenti delle liberalizzazioni lanciate con il ciclo di Doha, conferma dati che erano già stati diffusi dall’UNCTAD e dall’UNDP ed arrivano ad alcune conclusioni: i paesi in via di sviluppo saranno verosimilmente i perdenti del gioco, visto che non hanno capacità agricole e industriali per competere con i paesi ricchi; i vincenti saranno proprio i paesi ricchi: gli Stati Uniti, l’Europa e il Giappone, ma anche la Cina.
Il libero commercio produrrà modesti guadagni a livello globale, anche perché i costi di aggiustamento, che i paesi devono affrontare quando si impegnano nel processo di liberalizzazione promosso dai paesi industrializzati, possono essere maggiori dei benefici.
Non si tratta di essere contro il commercio, l’apertura dei mercati può essere anche un efficace strumento di lotta alla povertà, ma come ogni strumento deve essere usato con molta cautela. Bisogna, prima di tutto, mettere in condizione i paesi di fare fronte alle proprie esigenze interne, rafforzando la capacità produttiva in funzione, soprattutto, di obiettivi interni di sovranità alimentare, poi bisogna permettere di far fronte alla concorrenza e alle limitazioni all’atto dell’offerta, fornendo risorse adeguate non presenti al momento nelle prospettive finanziare.
Bisogna, poi, in secondo luogo, lavorare sulla base di calendari realistici, che tengano conto del tempo che gli aggiustamenti strutturali chiedono e, in terzo luogo, bisogna limitare l’apertura del mercato, prevedendo anche meccanismi per sospendere il processo di liberalizzazione, se necessario, e dando la possibilità ai paesi ACP di proteggere le proprie industrie nascenti e strategiche; del resto questo criterio lo abbiamo utilizzato noi stessi durante tutto lo scorso secolo e qualcuno in realtà tenta ancora di riproporlo oggi.
Questi principi sono quasi presenti nella relazione, anche perché queste sono le richieste dei paesi ACP, sono loro che le formulano. Perché un principio effettivo di
impone di tener conto delle richieste dei nostri interlocutori, soprattutto se giustificate, soprattutto se sostenute dalla società civile in Europa e nei paesi ACP. Anche e soprattutto perché gli accordi di partenariato economico nascono dal quadro legale e istituzionale dell’accordo di Cotonou, firmato dall’Unione europea – lo sottolineo – e hanno come obiettivo ultimo lo sviluppo e la lotta alla povertà.
In base a questo stesso principio di partenariato non abbiamo diritto di imporre accordi. Credo che siano loro a doverlo fare e uno dei punti principali della relazione è la richiesta alla Commissione di studiare fin da subito le alternative affinché i paesi ACP possano, valutando le opzioni, scegliere se firmare o meno tali accordi. La reciprocità, poi, con cui si sta richiedendo l’attuazione delle liberalizzazioni, significa applicare leggi uguali tra soggetti non uguali economicamente e per grado di sviluppo; ciò non porta affatto uguaglianza e democrazia.
Pensare allo sviluppo solo in termini di aumento del prodotto interno lordo in un paese è molto riduttivo. Lo sviluppo è difficile da definire, ma quando nella mia relazione si chiede alla Commissione di proteggere dalla liberalizzazione i settori dell’acqua, della salute e dell’istruzione, si parla sostanzialmente di diritti che devono essere garantiti, come quando si cita la dichiarazione di Città del Capo, l’Assemblea paritetica ACP-UE ha anche la competenza per fissare indicatori di sviluppo per valutare il conseguimento dei risultati e dei negoziati commerciali, chiedendo che si includano gli indicatori sociali e ambientali come la creazione di lavoro dignitoso, la salute, l’istruzione, la parità dei sessi."@it12
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"Signor presidente, onorevoli colleghi, "Mangerai quando sarai competitivo" è lo slogan di un poster: sullo sfondo un ragazzo africano pelle e ossa. La frase è enfatica, ma sembra proprio che l'Unione europea stia, e questo è un eufemismo, sopravvalutando l'efficacia del commercio nella lotta alla povertà.
Si parla di diritti, di quelli stessi diritti per i quali in Europa ci siamo battuti, di quelli stessi valori su cui si fonda l'Unione europea. Il Parlamento europeo non può voler cancellare questi valori. Siamo in un momento cruciale della lotta alla povertà, dobbiamo anche rispondere agli obiettivi che ci siamo posti.
La relazione oggi in discussione è monca, il progetto prevedeva infatti alcuni punti in cui si mettevano in discussione gli effetti della liberalizzazione sull'economia dei paese in via di sviluppo. Diversi studi econometrici, un rapporto di
lo studio
di Sandra Polanski, pubblicato la settimana scorsa, hanno mostrato che molti paesi in via di sviluppo, soprattutto nell'Africa subsahariana, vivrebbero migliori condizioni oggi se non avessimo introdotto misure di liberalizzazione selvaggia.
Lo studio della Polanski, che analizza i vincenti e i perdenti delle liberalizzazioni lanciate con il ciclo di Doha, conferma dati che erano già stati diffusi dall'UNCTAD e dall'UNDP ed arrivano ad alcune conclusioni: i paesi in via di sviluppo saranno verosimilmente i perdenti del gioco, visto che non hanno capacità agricole e industriali per competere con i paesi ricchi; i vincenti saranno proprio i paesi ricchi: gli Stati Uniti, l'Europa e il Giappone, ma anche la Cina.
Il libero commercio produrrà modesti guadagni a livello globale, anche perché i costi di aggiustamento, che i paesi devono affrontare quando si impegnano nel processo di liberalizzazione promosso dai paesi industrializzati, possono essere maggiori dei benefici.
Non si tratta di essere contro il commercio, l'apertura dei mercati può essere anche un efficace strumento di lotta alla povertà, ma come ogni strumento deve essere usato con molta cautela. Bisogna, prima di tutto, mettere in condizione i paesi di fare fronte alle proprie esigenze interne, rafforzando la capacità produttiva in funzione, soprattutto, di obiettivi interni di sovranità alimentare, poi bisogna permettere di far fronte alla concorrenza e alle limitazioni all'atto dell'offerta, fornendo risorse adeguate non presenti al momento nelle prospettive finanziare.
Bisogna, poi, in secondo luogo, lavorare sulla base di calendari realistici, che tengano conto del tempo che gli aggiustamenti strutturali chiedono e, in terzo luogo, bisogna limitare l'apertura del mercato, prevedendo anche meccanismi per sospendere il processo di liberalizzazione, se necessario, e dando la possibilità ai paesi ACP di proteggere le proprie industrie nascenti e strategiche; del resto questo criterio lo abbiamo utilizzato noi stessi durante tutto lo scorso secolo e qualcuno in realtà tenta ancora di riproporlo oggi.
Questi principi sono quasi presenti nella relazione, anche perché queste sono le richieste dei paesi ACP, sono loro che le formulano. Perché un principio effettivo di partership impone di tener conto delle richieste dei nostri interlocutori, soprattutto se giustificate, soprattutto se sostenute dalla società civile in Europa e nei paesi ACP. Anche e soprattutto perché gli accordi di partenariato economico nascono dal quadro legale e istituzionale dell'accordo di Cotonou, firmato dall'Unione europea - lo sottolineo - e hanno come obiettivo ultimo lo sviluppo e la lotta alla povertà.
In base a questo stesso principio di partenariato non abbiamo diritto di imporre accordi. Credo che siano loro a doverlo fare e uno dei punti principali della relazione è la richiesta alla Commissione di studiare fin da subito le alternative affinché i paesi ACP possano, valutando le opzioni, scegliere se firmare o meno tali accordi. La reciprocità, poi, con cui si sta richiedendo l'attuazione delle liberalizzazioni, significa applicare leggi uguali tra soggetti non uguali economicamente e per grado di sviluppo; ciò non porta affatto uguaglianza e democrazia.
Pensare allo sviluppo solo in termini di aumento del prodotto interno lordo in un paese è molto riduttivo. Lo sviluppo è difficile da definire, ma quando nella mia relazione si chiede alla Commissione di proteggere dalla liberalizzazione i settori dell'acqua, della salute e dell'istruzione, si parla sostanzialmente di diritti che devono essere garantiti, come quando si cita la dichiarazione di Città del Capo, l'Assemblea paritetica ACP-UE ha anche la competenza per fissare indicatori di sviluppo per valutare il conseguimento dei risultati e dei negoziati commerciali, chiedendo che si includano gli indicatori sociali e ambientali come la creazione di lavoro dignitoso, la salute, l'istruzione, la parità dei sessi."@cs1
"Hr. formand, mine damer og herrer, "You will eat when you are competitive" er et slogan på en plakat: i baggrunden et sultende afrikansk barn. Sætningen er meget sigende, men det lader faktisk til, at EU, og dette er en eufemisme, lægger for stor vægt på samhandelens effektivitet i kampen mod fattigdom.
Vi taler om rettigheder - de samme rettigheder, som vi har kæmpet for i Europa, de samme rettigheder, som EU er baseret på. Europa-Parlamentet kan ikke have et ønske om at fjerne disse værdier. Vi befinder os på et vigtigt tidspunkt i kampen mod fattigdom, og vi skal opfylde de målsætninger, som vi har opstillet for os selv.
Betænkningen, som vi diskuterer i dag, er ufuldstændig, og i forslaget var der rent faktisk nogle punkter, hvor liberaliseringens indvirkning på udviklingslandenes økonomier blev draget i tvivl. Forskellige økonometriske undersøgelser, en rapport fra Christian Aid og undersøgelsen med titlen "Winners and losers" udarbejdet af Sandra Polanski, som blev offentliggjort i sidste uge, har vist, at mange udviklingslande, navnlig i Afrika syd for Sahara, ville stå i en bedre situation i dag, hvis de ikke havde indført uhæmmede liberaliseringsforanstaltninger.
Polanski-undersøgelsen, hvori man analyserer vindere og tabere ved den liberalisering, der blev iværksat under Doha-runden, bekræfter tidligere offentliggjorte oplysninger fra UNCTAD og UNDP og når frem til en række konklusioner: Udviklingslandene vil formentlig blive taberne i dette spil, fordi de ikke har den landbrugsmæssige eller industrielle kapacitet til at konkurrere med de rige lande, mens vinderne bliver de rige lande: USA, Europa og Japan og ligeledes Kina.
Frihandel vil føre til beskedne gevinster på globalt plan, til dels fordi udgifterne til de tilpasninger, som landene skal afholde, når de gennemfører liberaliseringsprocessen, som de industrialiserede lande kræver, kan være større end fordelene.
Det er ikke et spørgsmål om at være modstander af samhandel, eftersom åbningen af markederne også kan være et effektivt våben i kampen mod fattigdom, men som alle andre instrumenter skal det bruges med stor forsigtighed. Først og fremmest er det nødvendigt at give landene mulighed for at overholde deres egne interne krav ved at udvikle deres produktionskapacitet, navnlig i henhold til interne mål om selvforsyning med fødevarer, og så er det nødvendigt, at de får mulighed for at håndtere konkurrencen og begrænsningerne på udbuddet ved at stille tilstrækkelige ressourcer til rådighed, som for indeværende ikke forefindes i de finansielle overslag.
For det andet er det nødvendigt at arbejde ud fra realistiske tidsplaner, hvor der tages hensyn til den tid, der er nødvendig til at gennemføre strukturtilpasninger, og for det tredje er det nødvendigt at begrænse åbningen af markederne og desuden at indføre mekanismer, så man om nødvendigt kan suspendere liberaliseringsprocessen og give AVS-landene mulighed for at beskytte deres egne spirende og strategiske industrier; under alle omstændigheder anvendte vi selv dette kriterium gennem hele det sidste århundrede, og nogen prøver rent faktisk stadig at fremføre det i dag.
Disse principper er næsten indeholdt i betænkningen, til dels fordi AVS-landene har ønsket det, og det er disse lande, der fremfører dem. Fordi et effektivt partnerskabsprincip kræver, at vi tager højde for vores partneres ønsker, navnlig hvis de er velbegrundede, og navnlig hvis de har opbakning fra det civile samfund i Europa og i AVS-landene. Også og navnlig fordi de økonomiske partnerskabsaftaler udspringer af den retlige og institutionelle ramme i Cotonou-aftalen, som er underskrevet af EU - og det vil jeg gerne understrege - og de har udvikling og bekæmpelse af fattigdom som deres endelige mål.
På grundlag af dette selv samme partnerskabsprincip har vi ikke ret til at påtvinge andre aftaler. Jeg mener, at det er disse lande, der skal gøre det, og et af de centrale punkter i betænkningen er opfordringen til Kommissionen om umiddelbart at foretage en undersøgelse af alternativerne, så AVS-landene kan evaluere mulighederne og beslutte, hvorvidt de vil undertegne aftalerne eller ej. Den gensidighed, der opfordres til ved gennemførelsen af liberaliseringen, betyder dermed, at man skal anvende de samme love på lande, som ikke er lige hvad angår økonomi og udvikling; det er ikke den rigtige metode til at skabe lighed eller demokrati.
Udelukkende at tænke på udvikling i form af en forøgelse et lands bruttonationalprodukt er meget reduktionistisk. Udvikling er vanskeligt at definere, men når jeg i min betænkning opfordrer Kommissionen til at beskytte vand-, sundheds- og uddannelsessektoren mod liberalisering, taler vi grundlæggende om rettigheder, der skal sikres, som når vi citerer Cape Town-erklæringen. Den Blandede Parlamentariske Forsamling AVS-EU har også beføjelser til at fastsætte udviklingsindikatorer med henblik på at vurdere opnåelsen af resultater og handelsaftaler, idet man kræver, at man ligeledes medtager sociale og arbejdsmarkedsmæssige samt miljømæssige indikatorer såsom indførelse af værdig beskæftigelse, sundhed, uddannelse og ligestilling."@da2
".
Herr Präsident, verehrte Kolleginnen und Kollegen! „Du wirst essen, wenn Du wettbewerbsfähig bist“, lautet der Slogan auf einem Poster: im Hintergrund ein bis auf die Knochen abgemagerter afrikanischer Junge. Der Satz ist wirklich eindringlich, doch gegenwärtig hat es den Anschein, als würde die Europäische Union bei der Armutsbekämpfung – gelinde gesagt – den Nachdruck zu sehr auf die Wirksamkeit des Handels legen.
Wir sprechen über Rechte – über dieselben Rechten, für die wir in Europa gekämpft haben, über dieselben Werte, auf die sich die Europäische Union gründet. Das Europäische Parlament kann nicht wollen, dass diese Werte aufgegeben werden. Wir stehen an einem entscheidenden Punkt der Armutsbekämpfung, und wir müssen den Zielen, die wir uns selbst gesteckt haben, gerecht werden.
Der heute erörterte Bericht ist unvollständig, und der Entwurf enthielt tatsächlich einige Passagen, in denen die Auswirkungen der Liberalisierung auf die Wirtschaft der Entwicklungsländer infrage gestellt wurden. Verschiedene wirtschaftswissenschaftliche Studien, ein Bericht von Christian Aid und die vorige Woche veröffentlichte Studie „Gewinner und Verlierer“ von Sandra Polanski haben gezeigt, dass in vielen Entwicklungsländern, vor allem in Afrika südlich der Sahara, die Verhältnisse heute besser wären, wenn wir keine zügellosen Liberalisierungsmaßnahmen durchgeführt hätten.
Die Polanski-Studie, in der die Gewinner und Verlierer der durch die Doha-Runde eingeleiteten Liberalisierungsmaßnahmen untersucht werden, bestätigt die Angaben, die bereits zuvor von der UNCTAD und dem UNDP veröffentlicht wurden, und gelangt zu folgenden Schlussfolgerungen: Die Entwicklungsländer werden wahrscheinlich die Verlierer in dem Spiel sein, denn sie verfügen nicht über die landwirtschaftlichen und industriellen Kapazitäten, um mit den reichen Ländern mithalten zu können; Gewinner werden in Wirklichkeit die reichen Länder sein – die USA, Europa und Japan, aber auch China.
Der Freihandel wird weltweit bescheidene Gewinne bringen, auch weil die Anpassungskosten, die von den Ländern bestritten werden müssen, wenn sie sich an dem von den Industrieländern geförderten Liberalisierungsprozess beteiligen, höher als die Erträge sein können.
Es geht nicht darum, sich gegen den Handel zu stellen, denn die Öffnung der Märkte kann ein wirksames Instrument der Armutsbekämpfung sein, doch wie jedes Instrument muss es mit Bedacht eingesetzt werden. Als Erstes müssen die Länder in die Lage versetzt werden, ihre internen Bedürfnisse zu befriedigen, indem sie die Produktionskapazitäten vor allem entsprechend ihren nationalen Zielen der Selbstversorgung mit Nahrungsmitteln ausbauen, und dann müssen sie befähigt werden, sich dem Wettbewerb zu stellen und angebotsseitigen Sachzwängen zu begegnen, indem ihnen entsprechende Mittel gewährt werden, die gegenwärtig nicht in der Finanziellen Vorausschau vorgesehen sind.
Zweitens muss nach realistischen Zeitplänen vorgegangen werden, in denen die Zeit, die für die Strukturanpassungen benötigt wird, Berücksichtigung findet, und drittens gilt es, die Marktöffnung zu begrenzen sowie erforderlichenfalls Mechanismen zur zeitweiligen Aussetzung des Liberalisierungsprozesses vorzusehen und den AKP-Ländern die Möglichkeit einzuräumen, ihre im Aufbau befindlichen und strategisch wichtigen Industriezweige zu schützen; im Übrigen haben wir selbst dieses Kriterium während des ganzen letzten Jahrhunderts angewandt, und mancher versucht tatsächlich, es heute wieder einzuführen.
Diese Grundsätze sind quasi in dem Bericht enthalten, auch weil dies die Forderungen der AKP-Staaten sind und sie dieselben formuliert haben. Weil eine echte Partnerschaft gebietet, dass wir die Forderungen unserer Partner berücksichtigen, insbesondere wenn sie berechtigt sind und vor allem, wenn sie von der Bürgergesellschaft in Europa und in den AKP-Ländern unterstützt werden. Und auch und vor allem, weil die Wirtschaftspartnerschaftsabkommen im rechtlichen und institutionellen Rahmen des Abkommens von Cotonou entstanden sind, unterzeichnet von der Europäischen Union – ich betone das –, und ihr oberstes Ziel die Entwicklung und die Armutsbekämpfung sind.
Ausgehend von eben diesem Partnerschaftsgrundsatz haben wir kein Recht, den Abschluss von Abkommen zu verlangen. Ich meine, dass es diese Länder sind, die das tun müssten, und einer der wichtigsten Punkte des Berichts ist die Forderung an die Kommission, umgehend alle alternativen Möglichkeiten zu prüfen, damit die AKP-Länder die Optionen abwägen und dann entscheiden können, ob sie solche Abkommen unterzeichnen wollen oder nicht. Die Gegenseitigkeit, die für die Durchführung der Liberalisierungsmaßnahmen gefordert wird, bedeutet letztendlich, gleiche Gesetze auf Akteure anzuwenden, die weder wirtschaftlich gleich sind noch den gleichen Entwicklungsstand aufweisen; das wird keineswegs zu Gleichberechtigung und Demokratie führen.
Entwicklung nur unter dem Aspekt der Steigerung des Bruttoinlandsprodukts eines Landes zu betrachten, ist wirklich engstirnig. Entwicklung ist schwer zu definieren, doch wenn in meinem Bericht von der Kommission gefordert wird, die Bereiche Wasser, Gesundheit und Ausbildung vor Liberalisierung zu schützen, geht es im Wesentlichen um Rechte, die garantiert werden müssen, was auch für die Erwähnung der Erklärung von Kapstadt gilt. Die Paritätische Parlamentarische Versammlung AKP-EU ist auch befugt, Vergleichsparameter für die Entwicklung festzulegen, an denen der Verlauf und das Ergebnis der Verhandlungen über den Handel zu messen sind, und zu fordern, dass diese Vergleichsparameter soziale und ökologische Indikatoren enthalten, u. a. Schaffung menschenwürdiger Arbeit, Gesundheit, Bildung und geschlechtsspezifische Auswirkungen."@de9
"Κύριε Πρόεδρε, κυρίες και κύριοι, «Θα φας όταν θα γίνεις ανταγωνιστικός» είναι το σλόγκαν μιας αφίσας με ένα αποστεωμένο παιδί από την Αφρική στο βάθος. Η φράση είναι δηλωτική, αλλά φαίνεται πως η Ευρωπαϊκή Ένωση υπερεκτιμά πραγματικά την αποτελεσματικότητα του εμπορίου στην καταπολέμηση της φτώχειας.
Πρόκειται για τα ίδια δικαιώματα για τα οποία δώσαμε μάχη στην Ευρώπη και για τις αξίες στις οποίες βασίζεται η Ευρωπαϊκή Ένωση. Το Ευρωπαϊκό Κοινοβούλιο δεν μπορεί να διαγράψει αυτές τις αρχές. Διανύουμε μια κρίσιμη περίοδο για την καταπολέμηση της φτώχειας και πρέπει να ανταποκριθούμε στους στόχους που έχουμε θέσει εμείς οι ίδιοι.
Η υπό συζήτηση έκθεση είναι ακρωτηριασμένη, καθώς το σχέδιο προέβλεπε ορισμένα σημεία που έθεταν υπό αμφισβήτηση τα αποτελέσματα της ελευθέρωσης στην οικονομία των αναπτυσσόμενων χωρών. Αρκετές οικονομετρικές μελέτες, μια έκθεση του Christian Aid και η μελέτη «Winners and losers» της Sandra Polanski που δημοσιεύθηκε την προηγούμενη εβδομάδα, απέδειξαν ότι πολλές αναπτυσσόμενες χώρες και κυρίως οι αφρικανικές χώρες νοτίως της Σαχάρας θα ζούσαν σήμερα υπό καλύτερες συνθήκες εάν δεν είχαμε θεσπίσει μέσα ανεξέλεγκτης ελευθέρωσης.
Η μελέτη της Polanski, η οποία αναλύει τους νικητές και τους ηττημένους των ελευθερώσεων που ξεκίνησαν με τον γύρο της Ντόχα, επιβεβαιώνει στοιχεία που είχαν δημοσιεύσει ήδη η ΔΗΕΕΑ και το ΠΑΗΕ και καταλήγει σε ορισμένα συμπεράσματα: οι αναπτυσσόμενες χώρες θα είναι πιθανώς οι ηττημένες, καθώς δεν διαθέτουν τις γεωργικές και βιομηχανικές δυνατότητες για να ανταγωνισθούν τις πλούσιες χώρες, ενώ νικητές θα είναι οι πλούσιες αυτές χώρες: οι Ηνωμένες Πολιτείες, η Ευρώπη, η Ιαπωνία, αλλά και η Κίνα.
Το ελεύθερο εμπόριο θα επιφέρει μέτρια οφέλη σε γενικό επίπεδο, δεδομένου ότι το κόστος προσαρμογής που πρέπει να αντιμετωπίσουν οι χώρες για να εφαρμόσουν τη διαδικασία ελευθέρωσης που προωθούν οι βιομηχανικές χώρες, μπορεί να είναι μεγαλύτερο από τα οφέλη.
Δεν είμαστε κατά του εμπορίου. Το άνοιγμα των αγορών μπορεί να αποδειχθεί αποτελεσματικό μέσο στην καταπολέμηση της φτώχειας, αλλά όπως και τα υπόλοιπα μέσα πρέπει να χρησιμοποιηθεί με ιδιαίτερη προσοχή. Θα πρέπει καταρχάς να δημιουργηθούν οι συνθήκες για να μπορέσουν οι χώρες να ανταποκριθούν στις εσωτερικές τους ανάγκες ενισχύοντας την παραγωγική τους ικανότητα με βασικό κριτήριο τους εσωτερικούς στόχους διατροφικής αυτάρκειας και εν συνεχεία να αντιμετωπίσουν τον ανταγωνισμό και τους περιορισμούς της προσφοράς παρέχοντας επαρκείς πόρους, οι οποίοι σήμερα απουσιάζουν από τις δημοσιονομικές προοπτικές.
Κατά δεύτερο λόγο, θα πρέπει να εργασθούμε πάνω σε ρεαλιστικά χρονοδιαγράμματα, τα οποία θα λαμβάνουν υπόψη τον χρόνο που απαιτούν οι διαρθρωτικές προσαρμογές και, κατά τρίτο λόγο, πρέπει να περιορίσουμε το άνοιγμα της αγοράς θεσπίζοντας μηχανισμούς για την αναστολή της διαδικασίας ελευθέρωσης, όταν καθίσταται αναγκαίο, παρέχοντας τη δυνατότητα στις χώρες ΑΚΕ να προστατεύσουν τις αναπτυσσόμενες και στρατηγικές τους βιομηχανίες. Το κριτήριο αυτό το εφαρμόσαμε εξάλλου και εμείς οι ίδιοι τον περασμένο αιώνα, ενώ ορισμένοι επιχειρούν να το επαναφέρουν και σήμερα.
Οι αρχές αυτές εμφανίζονται κατά κάποιον τρόπο στην έκθεση, καθώς αποτελούν αιτήματα που διατυπώνουν οι χώρες ΑΚΕ. Οι αρχές μιας πραγματικής εταιρικής σχέσης μας επιβάλλουν να λαμβάνουμε υπόψη τα αιτήματα των συνομιλητών μας, ιδίως όταν είναι αιτιολογημένα και υποστηρίζονται από την κοινωνία των πολιτών στην Ευρώπη και στις χώρες ΑΚΕ. Προπαντός δε γιατί οι συμφωνίες οικονομικής εταιρικής σχέσης, οι οποίες έχουν ως τελικό στόχο την ανάπτυξη και την καταπολέμηση της φτώχειας, βασίζονται στο νομικό και θεσμικό πλαίσιο της Συμφωνίας του Κοτονού, την οποία –το υπογραμμίζω– έχει υπογράψει η Ευρωπαϊκή Ένωση.
Σύμφωνα με την ίδια αρχή της εταιρικής σχέσης, δεν έχουμε το δικαίωμα να επιβάλλουμε συμφωνίες. Πιστεύω πως οι ίδιες οι χώρες είναι εκείνες που πρέπει να το πράξουν με δική τους πρωτοβουλία και ένα από τα βασικά σημεία της έκθεσης είναι το αίτημα προς την Επιτροπή να μελετήσει αμέσως πιθανές εναλλακτικές λύσεις, προκειμένου οι χώρες ΑΚΕ να μπορούν να επιλέξουν εάν θα υπογράψουν ή όχι αυτές τις συμφωνίες μετά από αξιολόγηση των προοπτικών. Η αμοιβαιότητα βάσει της οποίας ζητάμε την εφαρμογή των ελευθερώσεων, σημαίνει εφαρμογή ίσων αρχών σε εταίρους που δεν είναι ίσοι ούτε οικονομικά ούτε αναπτυξιακά. Αυτό δεν οδηγεί ούτε σε ισότητα ούτε σε δημοκρατία.
Η προσέγγιση της ανάπτυξης μόνο με όρους αύξησης του ΑΕγχΠ μιας χώρας είναι πολύ περιοριστική. Η ανάπτυξη είναι δύσκολο να ορισθεί, αλλά όταν στην έκθεση ζητάμε από την Επιτροπή να προστατεύσει από την ελευθέρωση τους τομείς του νερού, της υγείας και της εκπαίδευσης, μιλάμε ουσιαστικά για δικαιώματα που πρέπει να διασφαλίζονται, όπως όταν παραπέμπουμε στη δήλωση του Κέιπ Τάουν, σύμφωνα με την οποία η Κοινοβουλευτική Συνέλευση Ίσης Εκπροσώπησης ΑΚΕ-ΕΕ έχει το δικαίωμα να θεσπίζει κριτήρια ανάπτυξης για την αξιολόγηση της διεξαγωγής και της έκβασης των εμπορικών διαπραγματεύσεων, ζητώντας την ενσωμάτωση των κοινωνικών και περιβαλλοντικών κριτηρίων, όπως η αξιοπρεπής εργασία, η υγεία, η εκπαίδευση και η ισότητα των φύλων."@el10
"Mr President, ladies and gentlemen, ‘You will eat when you are competitive’ is a slogan on a poster: in the background, a starving African child. The phrase is very emphatic, but it actually seems that the European Union, and this is a euphemism, is placing too much emphasis on the effectiveness of trade in the fight against poverty.
We are talking about rights – the same rights for which we have struggled in Europe, the same rights on which the European Union is founded. The European Parliament cannot wish to remove these values. We are at a crucial point in the struggle against poverty and we must meet the objectives that we have set ourselves.
The report under debate today is incomplete, and in the draft, in fact, there were some points where the effects of liberalisation on the economies of developing countries were called into question. Various econometric studies, a report by Christian Aid and the study entitled ‘Winners and losers’ by Sandra Polanski, published last week, have shown that many developing countries, particularly in sub-Saharan Africa, would be experiencing better conditions today if we had not introduced unbridled liberalisation measures.
The Polanski study, which analyses the winners and losers in the liberalisations launched under the Doha Round, confirms data previously published by UNCTAD and the UNDP and reaches certain conclusions: developing countries will probably be the losers in the game, since they do not have the agricultural or industrial capacity to compete with the rich countries; the winners will in fact be the rich countries: the United States, Europe and Japan, and also China.
Free trade will produce modest gains at the global level, partly because the adjustment costs which countries have to deal with when they undertake the liberalisation process promoted by the industrialised countries can be greater than the benefits.
It is not a question of being against trade, since the opening up of the markets can also be an effective instrument in the fight against poverty, but like any instrument it must be used with great caution. First of all, it is necessary to put the countries in a position to meet their own internal requirements, by boosting productive capacity in line, above all, with internal goals of self-sufficiency in food, and then it is necessary to allow them to tackle competition and limitations on supply, by providing adequate resources which are currently not present in the financial perspectives.
Secondly, it is then necessary to work on the basis of realistic timetables, which take into account the time that structural adjustments require and, thirdly, it is necessary to restrict the opening up of the market, and to lay down, in addition, mechanisms for suspending the liberalisation process, if necessary, and to give the ACP countries the opportunity to protect their own incipient and strategic industries; in any case, we used this criterion ourselves throughout the last century and some in fact are still trying to put it forward again today.
These principles are almost present in the report, partly because these are the requests of the ACP countries, and it is those countries that are putting them forward. Because an effective principle of partnership requires that we take into account the requests of our partners, above all if they are justified, and above all if they are backed by civil society in Europe and in the ACP countries. Also and above all because the economic partnership agreements arise from the legal and institutional framework of the Cotonou agreement, signed by the European Union – and I underline this – and they have development and combating poverty as their ultimate goals.
On the basis of this same principle of partnership, we do not have the right to impose agreements. I believe that it is those countries that have to do it, and one of the main points in the report is the call for the Commission to carry out an immediate study of the alternatives so that the ACP countries can evaluate the options and decide whether to sign the agreements or not. The reciprocity that is being called for in the implementation of liberalisations, then, means applying equal laws to those who are not equal in economic or development terms; this is no way to produce equality or democracy.
Thinking about development solely in terms of increasing a country’s gross domestic product is very reductionist. Development is hard to define, but when in my report the Commission is called upon to protect the sectors of water, health and education from liberalisation, what we are fundamentally talking about is rights that must be guaranteed, as when the Cape Town Declaration is quoted. The ACP-EU Joint Parliamentary Assembly also has the power to set development indicators in order to assess the achievement of results and trade agreements, requesting that social and environmental indicators be included such as the creation of dignified work, health, education and gender equality."@en4
".
Señor Presidente, Señorías, «Comerás cuando seas competitivo» es el lema de un cartel: en segundo plano, un niño africano hambriento. La frase es muy contundente, pero parece que la Unión Europea, y esto es un eufemismo, está haciendo demasiado hincapié en la eficacia del comercio en la lucha contra la pobreza.
Estamos hablando de derechos, los mismos derechos por los que hemos luchado en Europa, los mismos derechos en los que se fundamenta la Unión Europea. El Parlamento Europeo no puede querer eliminar estos valores. Nos encontramos en un punto crucial de la lucha contra la pobreza y tenemos que lograr los objetivos que nos hemos impuesto.
El informe que debatimos hoy está incompleto, y en el proyecto había de hecho algunos puntos en que cuestionaban los efectos de la liberalización sobre las economías de los países en desarrollo. Varios estudios econométricos, un informe de Christian Aid y el estudio titulado «Ganadores y Perdedores», de Sandra Polanski, publicado la semana pasada, han demostrado que muchos países en desarrollo, en particular en el África subsahariana, disfrutarían de mejores condiciones si no hubiésemos introducido medidas de liberalización desenfrenadas.
El estudio Polanski, que analiza a los ganadores y los perdedores en las liberalizaciones lanzadas en la Ronda de Doha, confirma datos anteriormente publicados por la UNCTAD y el PNUD y llega a algunas conclusiones: los países en desarrollo probablemente perderán la partida porque no tienen la capacidad agrícola o industrial para competir con los países ricos; los ganadores serán de hecho los países ricos: los Estados Unidos, Europa y Japón, y también China.
El libre comercio comportará beneficios modestos a escala mundial, en parte porque los costes del ajuste que deberán afrontar los países cuando efectúan el proceso de liberalización promovido por los países industrializados pueden sobrepasar a los beneficios.
No se trata de ir en contra del comercio, porque la apertura de los mercados también puede ser un instrumento eficaz en la lucha contra la pobreza, pero como cualquier otro instrumento, hay que usarlo con precaución. En primer lugar, es necesario ayudar a los países a satisfacer sus propias necesidades internas, impulsando su capacidad productiva en función, sobre todo, de objetivos internos de autosuficiencia alimentaria, y después es necesario permitirles que afronten la competencia y las limitaciones de la oferta, dotándoles de recursos suficientes que ahora no están presentes en las perspectivas financieras.
En segundo lugar, es necesario trabajar sobre la base de un calendario realista, que tenga en cuenta el tiempo que se necesita para los ajustes estructurales y, en tercer lugar, es necesario limitar la apertura del mercado y establecer mecanismos de suspensión del proceso de liberalización, si es preciso, y dar a los países ACP la oportunidad de proteger sus industrias incipientes y estratégicas; en cualquier caso, nosotros mismos hemos usado ese criterio durante el siglo pasado y algunos aún están intentando volver a aplicarlo en la actualidad.
Esos principios están casi presentes en el informe, en parte porque estas son las peticiones de los países ACP y son esos países quienes las están formulando. Un principio de asociación eficaz exige que tengamos en cuenta las peticiones de nuestros socios, sobre todo si están justificadas y si la sociedad civil en Europa y en los países ACP las apoyan. Todos los acuerdos de asociación económica surgen del marco jurídico e institucional del acuerdo de Cotonú, firmado por la Unión Europea –y subrayo esto– y sus objetivos últimos son el desarrollo y la lucha contra la pobreza.
Sobre la base de este principio de asociación no tenemos derecho a imponer acuerdos. Creo que tienen que hacerlo esos países, y uno de los puntos principales del informe es el llamamiento a la Comisión para que lleve a cabo un estudio inmediato de las alternativas para que los países ACP puedan evaluar las opciones y decidan si firman o no los acuerdos. La reciprocidad que se pide en la aplicación de las liberalizaciones significa aplicar las mismas leyes a aquellos que no son iguales en términos económicos o de desarrollo; esto no conlleva igualdad ni democracia.
Pensar en el desarrollo solo en términos del aumento del producto interior bruto de un país es muy reduccionista. Es difícil definir el desarrollo, pero cuando en mi informe se pide a la Comisión que excluya de la liberalización los sectores del agua, la sanidad y la educación, estamos hablando fundamentalmente de derechos que hay que garantizar, como cuando se cita la Declaración de Ciudad del Cabo. La Asamblea Parlamentaria Paritaria ACP-UE también tiene la obligación de fijar indicadores de desarrollo para evaluar la consecución de los resultados y los acuerdos comerciales, de pedir que se incluyan indicadores sociales y ambientales como la creación de empleos dignos, la sanidad, la educación y la igualdad de género."@es20
"Signor presidente, onorevoli colleghi, "Mangerai quando sarai competitivo" è lo slogan di un poster: sullo sfondo un ragazzo africano pelle e ossa. La frase è enfatica, ma sembra proprio che l'Unione europea stia, e questo è un eufemismo, sopravvalutando l'efficacia del commercio nella lotta alla povertà.
Si parla di diritti, di quelli stessi diritti per i quali in Europa ci siamo battuti, di quelli stessi valori su cui si fonda l'Unione europea. Il Parlamento europeo non può voler cancellare questi valori. Siamo in un momento cruciale della lotta alla povertà, dobbiamo anche rispondere agli obiettivi che ci siamo posti.
La relazione oggi in discussione è monca, il progetto prevedeva infatti alcuni punti in cui si mettevano in discussione gli effetti della liberalizzazione sull'economia dei paese in via di sviluppo. Diversi studi econometrici, un rapporto di
lo studio
di Sandra Polanski, pubblicato la settimana scorsa, hanno mostrato che molti paesi in via di sviluppo, soprattutto nell'Africa subsahariana, vivrebbero migliori condizioni oggi se non avessimo introdotto misure di liberalizzazione selvaggia.
Lo studio della Polanski, che analizza i vincenti e i perdenti delle liberalizzazioni lanciate con il ciclo di Doha, conferma dati che erano già stati diffusi dall'UNCTAD e dall'UNDP ed arrivano ad alcune conclusioni: i paesi in via di sviluppo saranno verosimilmente i perdenti del gioco, visto che non hanno capacità agricole e industriali per competere con i paesi ricchi; i vincenti saranno proprio i paesi ricchi: gli Stati Uniti, l'Europa e il Giappone, ma anche la Cina.
Il libero commercio produrrà modesti guadagni a livello globale, anche perché i costi di aggiustamento, che i paesi devono affrontare quando si impegnano nel processo di liberalizzazione promosso dai paesi industrializzati, possono essere maggiori dei benefici.
Non si tratta di essere contro il commercio, l'apertura dei mercati può essere anche un efficace strumento di lotta alla povertà, ma come ogni strumento deve essere usato con molta cautela. Bisogna, prima di tutto, mettere in condizione i paesi di fare fronte alle proprie esigenze interne, rafforzando la capacità produttiva in funzione, soprattutto, di obiettivi interni di sovranità alimentare, poi bisogna permettere di far fronte alla concorrenza e alle limitazioni all'atto dell'offerta, fornendo risorse adeguate non presenti al momento nelle prospettive finanziare.
Bisogna, poi, in secondo luogo, lavorare sulla base di calendari realistici, che tengano conto del tempo che gli aggiustamenti strutturali chiedono e, in terzo luogo, bisogna limitare l'apertura del mercato, prevedendo anche meccanismi per sospendere il processo di liberalizzazione, se necessario, e dando la possibilità ai paesi ACP di proteggere le proprie industrie nascenti e strategiche; del resto questo criterio lo abbiamo utilizzato noi stessi durante tutto lo scorso secolo e qualcuno in realtà tenta ancora di riproporlo oggi.
Questi principi sono quasi presenti nella relazione, anche perché queste sono le richieste dei paesi ACP, sono loro che le formulano. Perché un principio effettivo di partership impone di tener conto delle richieste dei nostri interlocutori, soprattutto se giustificate, soprattutto se sostenute dalla società civile in Europa e nei paesi ACP. Anche e soprattutto perché gli accordi di partenariato economico nascono dal quadro legale e istituzionale dell'accordo di Cotonou, firmato dall'Unione europea - lo sottolineo - e hanno come obiettivo ultimo lo sviluppo e la lotta alla povertà.
In base a questo stesso principio di partenariato non abbiamo diritto di imporre accordi. Credo che siano loro a doverlo fare e uno dei punti principali della relazione è la richiesta alla Commissione di studiare fin da subito le alternative affinché i paesi ACP possano, valutando le opzioni, scegliere se firmare o meno tali accordi. La reciprocità, poi, con cui si sta richiedendo l'attuazione delle liberalizzazioni, significa applicare leggi uguali tra soggetti non uguali economicamente e per grado di sviluppo; ciò non porta affatto uguaglianza e democrazia.
Pensare allo sviluppo solo in termini di aumento del prodotto interno lordo in un paese è molto riduttivo. Lo sviluppo è difficile da definire, ma quando nella mia relazione si chiede alla Commissione di proteggere dalla liberalizzazione i settori dell'acqua, della salute e dell'istruzione, si parla sostanzialmente di diritti che devono essere garantiti, come quando si cita la dichiarazione di Città del Capo, l'Assemblea paritetica ACP-UE ha anche la competenza per fissare indicatori di sviluppo per valutare il conseguimento dei risultati e dei negoziati commerciali, chiedendo che si includano gli indicatori sociali e ambientali come la creazione di lavoro dignitoso, la salute, l'istruzione, la parità dei sessi."@et5
"Arvoisa puhemies, hyvät kollegat, eräässä julisteessa on teksti "Syö vasta sitten, kun olet kilpailukykyinen". Taustalla on kuva nälkää näkevästä afrikkalaisesta lapsesta. Lause on hyvin voimakas, mutta itse asiassa näyttää siltä, että Euroopan unioni – sanon tämä kaunistellusti – panostaa köyhyyden torjunnassa liikaa tehokkaaseen kaupankäyntiin.
Puhumme oikeuksista – samoista oikeuksista, joiden puolesta olemme Euroopassa taistelleet, samoista oikeuksista, joille Euroopan unioni perustuu. Euroopan parlamentti ei varmasti halua, että näistä arvoista luovutaan. Olemme köyhyyden torjumisessa ratkaisevassa vaiheessa, ja meidän on täytettävä nämä tavoitteet, jotka olemme itsellemme asettaneet.
Tänään keskustelun aiheena oleva mietintö on vaillinainen, ja luonnoksessa oli itse asiassa tiettyjä kohtia, joissa kehitysmaiden talouden vapauttamisen seuraukset kyseenalaistettiin. Monet ekonometriset tutkimukset, Christian Aid -järjestön laatima raportti sekä viime viikolla julkaistu Sandra Polanskin laatima tutkimus "Winners and losers" (Voittajia ja häviäjiä) ovat osoittaneet, että monien kehitysmaiden olot, erityisesti Saharan eteläpuolisessa Afrikassa, voisivat olla nykyisin paremmat, ellemme olisi toteuttaneet niissä hillittömiä vapauttamistoimia.
Polanskin tutkimuksessa, jossa analysoidaan Dohan neuvottelukierroksella käynnistettyjen vapauttamistoimien voittajia ja häviäjiä, vahvistetaan aiemmin UNCTADin ja UNDP:n julkaisemat tiedot ja tehdään tiettyjä päätelmiä: kehitysmaat todennäköisesti häviävät tässä pelissä, sillä niiden maatalouden tai teollisuuden valmiudet eivät riitä kilpailuun rikkaiden maiden kanssa. Voittajia tässä pelissä ovatkin rikkaat maat: Yhdysvallat, Euroopan unioni sekä Japani ja Kiina.
Vapaa kauppa tuottaa vaatimatonta voittoa maailmanlaajuisella tasolla osittain sen vuoksi, että mukauttamisesta aiheutuvat kustannukset, jotka maiden on maksettava ryhtyessään teollisuusmaiden edistämään vapautusprosessiin, voivat olla suurempia kuin voitot.
Kysymys ei ole siitä, että vastustettaisiin kauppaa, sillä markkinoiden avaaminen voi myös olla tehokas väline köyhyyden torjumisessa, mutta kuten mitä tahansa välinettä tätäkin on käsiteltävä erittäin varovaisesti. Ensinnäkin valtiot on saatettava sellaiseen asemaan, että ne pystyvät vastaamaan omiin kansainvälisiin vaatimuksiinsa, lisäämällä valtioiden tuotantokapasiteettia niin, että ennen kaikkea maan sisäiset tavoitteet elintarviketuotannon omavaraisuuden osalta voidaan saavuttaa. Tämän jälkeen maille on annettava riittävästi resursseja, jotta ne voivat puuttua kilpailuun ja tarjontatekijöiden rajoituksiin. Tällä hetkellä näitä resursseja ei ole sisällytetty rahoituskehykseen.
Toiseksi on tärkeää työskennellä sellaisten realististen aikataulujen mukaisesti, joissa otetaan huomioon rakennemuutoksiin tarvittava aika. Kolmanneksi on tärkeää rajoittaa markkinoiden avaamista ja myös määrätä mekanismeista, joilla vapauttamisprosessi voidaan tarvittaessa keskeyttää, sekä antaa AKT-maille mahdollisuus suojella omia vielä käynnistymisvaiheessa olevia ja strategisesti merkittäviä teollisuudenalojaan. Olemmehan kuitenkin itse käyttäneet tätä kriteeriä koko kuluneen vuosisadan ajan, ja jotkut itse asiassa yrittävät edelleen ottaa sen uudelleen käyttöön.
Nämä periaatteet jotakuinkin sisältyvät tähän mietintöön osittain siksi, että ne ovat AKT-maiden vaatimuksia, ja juuri nämä maat toteuttavat niitä. Todellinen kumppanuusperiaate nimittäin edellyttää, että otamme kumppaneidemme vaatimukset huomioon, varsinkin, jos ne ovat oikeutettuja, ja varsinkin, jos kansalaisyhteiskunta kannattaa niitä sekä Euroopan unionissa että AKT-maissa. Ennen kaikkea talouskumppanuussopimukset myös juontavat juurensa Euroopan unionin allekirjoittaman – tätä korostan – Cotonoun sopimuksen oikeudellisesta ja institutionaalisesta kehyksestä, ja niiden perimmäisenä tavoitteena on kehitys ja köyhyyden torjuminen.
Saman kumppanuusperiaatteen mukaisesti meillä ei ole oikeutta määrätä näitä maita tekemään sopimuksia. Mielestäni AKT-maat päättävät asiasta itseä, ja yksi tärkeimmistä seikoista tässä mietinnössä on, että komissiota vaaditaan välittömästi tutkimaan vaihtoehtoja, jotta AKT-maat voivat arvioida niitä ja päättää, haluavatko ne allekirjoittaa sopimuksen vai eivät. Vastavuoroisuus, jota kaivataan vapauttamistoimien täytäntöönpanossa, tarkoittaa puolestaan sitä, että samoja säädöksiä sovelletaan maihin, jotka eivät ole taloutensa tai kehityksensä osalta tasavertaisia; tällä tavoin ei edistetä tasavertaisuutta eikä demokratiaa.
Jos kehityksenä pidetään ainoastaan maan bruttokansantuotteen kasvua, se on hyvin suppea näkökulma. Kehitystä on vaikea määritellä, mutta kun mietinnössäni komissiota kehotetaan suojelemaan vesi-, terveydenhuolto- ja koulutusaloja vapauttamiselta, kysymys on pohjimmiltaan oikeuksista, jotka on taattava, ja samasta on kysymys, kun viitataan Kapkaupungin julistukseen. AKT:n ja EU:n yhteisellä parlamentaarisella edustajakokouksella on myös valtuudet asettaa kehitysindikaattoreita, joiden avulla voidaan arvioida saavutettuja tuloksia ja kauppasopimuksia sekä vaatia, että sosiaaliset ja ympäristöä koskevat osoittimet, kuten asianmukaisen työn, terveydenhuollon, koulutuksen sekä miesten ja naisten tasa-arvon luominen, otetaan niissä huomioon."@fi7
"Monsieur le Président, Mesdames et Messieurs, «Tu mangeras quand tu seras compétitif»: ce slogan publicitaire s’accompagne, à l’arrière-plan, de l’image d’un enfant africain qui meurt de faim. C’est une formule très frappante. Il apparaît pourtant que l’Union européenne s’appuie un peu trop, et c’est un euphémisme, sur l’efficacité du commerce dans la lutte contre la pauvreté.
Ce sont des droits, les mêmes que ceux pour lesquels nous nous sommes battus en Europe, les mêmes que ceux sur lesquels repose l’Union européenne. Le Parlement européen ne peut pas souhaiter l’abandon de ces valeurs. Nous sommes arrivés à un moment crucial de la lutte contre la pauvreté, et nous devons respecter les objectifs que nous nous sommes fixés.
Le rapport débattu aujourd’hui est incomplet, et le projet comportait certains arguments remettant en question les effets de la libéralisation sur les économies des pays en développement. Différentes études économétriques, un rapport de Christian Aid, ainsi que l’étude de Sandra Polanski intitulée «Gagnants et perdants», publiée la semaine dernière, démontrent que de nombreux pays en développement, particulièrement en Afrique sub-saharienne, connaîtraient à ce jour de meilleures conditions si nous n’y avions pas introduit de mesures de libéralisation effrénées.
L’étude de Polanski, qui examine les bénéficiaires et les victimes des libéralisations lancées dans le cadre du cycle de Doha, confirme les données publiées précédemment par la CNUCED et le PNUD et tire les conclusions suivantes. Les pays en développement seront sans doute les victimes de ces libéralisations, puisqu’ils ne possèdent pas la capacité agricole ou industrielle nécessaire pour concurrencer les pays riches; les bénéficiaires seront en réalité les pays riches, à savoir les États-Unis, l’Europe et le Japon, ainsi que la Chine.
Le libre-échange ne produira que de modestes gains au niveau mondial, en partie parce que les coûts d’ajustement auxquels doivent faire face les pays lorsqu’ils engagent le processus de libéralisation encouragé par les pays industrialisés peuvent s’avérer supérieurs aux gains retirés.
Il ne s’agit pas de se prononcer contre le commerce, car l’ouverture des marchés peut également s’avérer un instrument efficace dans la lutte contre la pauvreté. Comme tout instrument, il doit cependant être utilisé avec une grande prudence. Il importe avant tout de faire en sorte que ces pays soient en mesure de répondre à leurs besoins domestiques, en augmentant leurs capacités de production dans le cadre des objectifs internes d’autosuffisance alimentaire. Ensuite, il est indispensable de leur permettre de faire face à la concurrence et aux limites d’approvisionnement en leur octroyant les fonds adéquats, qui font défaut dans les perspectives financières actuelles.
En deuxième lieu, il est essentiel de travailler sur la base d’échéances réalistes qui prennent en considération le temps nécessaire aux ajustements structurels. En troisième lieu, il importe de limiter l’ouverture du marché et de déterminer des mécanismes de suspension du processus de libéralisation, le cas échéant, et de donner l’opportunité aux pays ACP de protéger leurs propres industries stratégiques naissantes; nous avons nous-mêmes eu recours à ce critère au cours du siècle dernier et certains d’entre nous essaient encore de le proposer aujourd’hui.
Ces principes figurent pratiquement dans le rapport, en partie parce que les pays ACP en ont fait la demande, et que ce sont ces pays qui avancent ces idées. En effet, un principe de partenariat efficace nécessite que l’on prenne en considération les demandes de nos partenaires, surtout si elles sont justifiées, et surtout si elles sont soutenues par la société civile en Europe et dans les pays ACP. Ils figurent avant tout également dans ce rapport parce que les accords de partenariat économique s’inscrivent dans le cadre juridique et institutionnel de l’Accord de Cotonou, ratifié par l’Union européenne - et j’insiste sur ce fait - , et que leurs principaux objectifs sont le développement et la lutte contre la pauvreté.
En vertu de ce même principe de partenariat, nous n’avons pas le droit d’imposer des accords. Je suis convaincue que la décision appartient à ces pays. C’est la raison pour laquelle ce rapport invite la Commission à examiner dans les plus brefs délais les alternatives possibles, afin de permettre aux pays ACP d’évaluer les options et de décider s’ils souhaitent ou non signer les accords. La réciprocité imposée dans la mise en œuvre des libéralisations implique l’application de lois égales à des pays qui ne sont pas égaux en termes d’économie et de développement; ce n’est pas la bonne façon de renforcer l’égalité ou la démocratie.
Ne considérer le développement qu’en termes d’accroissement du produit intérieur brut d’un pays est très réducteur. La notion de développement est difficile à définir, mais lorsque nous demandons instamment à la Commission, dans le cadre de mon rapport, de protéger de la libéralisation les secteurs de l’eau, de la santé et de l’éducation, nous évoquons des droits qu’il est indispensable de garantir, tout comme lorsque nous citons la Déclaration du Cap. L’Assemblée parlementaire paritaire ACP-UE est également habilitée à définir des critères de développement permettant d’évaluer la conduite et le résultat des négociations commerciales, en demandant la prise en compte d’indicateurs sociaux et environnementaux, notamment la création de conditions de travail décentes, la santé, l’éducation et l’égalité des genres."@fr8
"Signor presidente, onorevoli colleghi, "Mangerai quando sarai competitivo" è lo slogan di un poster: sullo sfondo un ragazzo africano pelle e ossa. La frase è enfatica, ma sembra proprio che l'Unione europea stia, e questo è un eufemismo, sopravvalutando l'efficacia del commercio nella lotta alla povertà.
Si parla di diritti, di quelli stessi diritti per i quali in Europa ci siamo battuti, di quelli stessi valori su cui si fonda l'Unione europea. Il Parlamento europeo non può voler cancellare questi valori. Siamo in un momento cruciale della lotta alla povertà, dobbiamo anche rispondere agli obiettivi che ci siamo posti.
La relazione oggi in discussione è monca, il progetto prevedeva infatti alcuni punti in cui si mettevano in discussione gli effetti della liberalizzazione sull'economia dei paese in via di sviluppo. Diversi studi econometrici, un rapporto di
lo studio
di Sandra Polanski, pubblicato la settimana scorsa, hanno mostrato che molti paesi in via di sviluppo, soprattutto nell'Africa subsahariana, vivrebbero migliori condizioni oggi se non avessimo introdotto misure di liberalizzazione selvaggia.
Lo studio della Polanski, che analizza i vincenti e i perdenti delle liberalizzazioni lanciate con il ciclo di Doha, conferma dati che erano già stati diffusi dall'UNCTAD e dall'UNDP ed arrivano ad alcune conclusioni: i paesi in via di sviluppo saranno verosimilmente i perdenti del gioco, visto che non hanno capacità agricole e industriali per competere con i paesi ricchi; i vincenti saranno proprio i paesi ricchi: gli Stati Uniti, l'Europa e il Giappone, ma anche la Cina.
Il libero commercio produrrà modesti guadagni a livello globale, anche perché i costi di aggiustamento, che i paesi devono affrontare quando si impegnano nel processo di liberalizzazione promosso dai paesi industrializzati, possono essere maggiori dei benefici.
Non si tratta di essere contro il commercio, l'apertura dei mercati può essere anche un efficace strumento di lotta alla povertà, ma come ogni strumento deve essere usato con molta cautela. Bisogna, prima di tutto, mettere in condizione i paesi di fare fronte alle proprie esigenze interne, rafforzando la capacità produttiva in funzione, soprattutto, di obiettivi interni di sovranità alimentare, poi bisogna permettere di far fronte alla concorrenza e alle limitazioni all'atto dell'offerta, fornendo risorse adeguate non presenti al momento nelle prospettive finanziare.
Bisogna, poi, in secondo luogo, lavorare sulla base di calendari realistici, che tengano conto del tempo che gli aggiustamenti strutturali chiedono e, in terzo luogo, bisogna limitare l'apertura del mercato, prevedendo anche meccanismi per sospendere il processo di liberalizzazione, se necessario, e dando la possibilità ai paesi ACP di proteggere le proprie industrie nascenti e strategiche; del resto questo criterio lo abbiamo utilizzato noi stessi durante tutto lo scorso secolo e qualcuno in realtà tenta ancora di riproporlo oggi.
Questi principi sono quasi presenti nella relazione, anche perché queste sono le richieste dei paesi ACP, sono loro che le formulano. Perché un principio effettivo di partership impone di tener conto delle richieste dei nostri interlocutori, soprattutto se giustificate, soprattutto se sostenute dalla società civile in Europa e nei paesi ACP. Anche e soprattutto perché gli accordi di partenariato economico nascono dal quadro legale e istituzionale dell'accordo di Cotonou, firmato dall'Unione europea - lo sottolineo - e hanno come obiettivo ultimo lo sviluppo e la lotta alla povertà.
In base a questo stesso principio di partenariato non abbiamo diritto di imporre accordi. Credo che siano loro a doverlo fare e uno dei punti principali della relazione è la richiesta alla Commissione di studiare fin da subito le alternative affinché i paesi ACP possano, valutando le opzioni, scegliere se firmare o meno tali accordi. La reciprocità, poi, con cui si sta richiedendo l'attuazione delle liberalizzazioni, significa applicare leggi uguali tra soggetti non uguali economicamente e per grado di sviluppo; ciò non porta affatto uguaglianza e democrazia.
Pensare allo sviluppo solo in termini di aumento del prodotto interno lordo in un paese è molto riduttivo. Lo sviluppo è difficile da definire, ma quando nella mia relazione si chiede alla Commissione di proteggere dalla liberalizzazione i settori dell'acqua, della salute e dell'istruzione, si parla sostanzialmente di diritti che devono essere garantiti, come quando si cita la dichiarazione di Città del Capo, l'Assemblea paritetica ACP-UE ha anche la competenza per fissare indicatori di sviluppo per valutare il conseguimento dei risultati e dei negoziati commerciali, chiedendo che si includano gli indicatori sociali e ambientali come la creazione di lavoro dignitoso, la salute, l'istruzione, la parità dei sessi."@hu11
"Signor presidente, onorevoli colleghi, "Mangerai quando sarai competitivo" è lo slogan di un poster: sullo sfondo un ragazzo africano pelle e ossa. La frase è enfatica, ma sembra proprio che l'Unione europea stia, e questo è un eufemismo, sopravvalutando l'efficacia del commercio nella lotta alla povertà.
Si parla di diritti, di quelli stessi diritti per i quali in Europa ci siamo battuti, di quelli stessi valori su cui si fonda l'Unione europea. Il Parlamento europeo non può voler cancellare questi valori. Siamo in un momento cruciale della lotta alla povertà, dobbiamo anche rispondere agli obiettivi che ci siamo posti.
La relazione oggi in discussione è monca, il progetto prevedeva infatti alcuni punti in cui si mettevano in discussione gli effetti della liberalizzazione sull'economia dei paese in via di sviluppo. Diversi studi econometrici, un rapporto di
lo studio
di Sandra Polanski, pubblicato la settimana scorsa, hanno mostrato che molti paesi in via di sviluppo, soprattutto nell'Africa subsahariana, vivrebbero migliori condizioni oggi se non avessimo introdotto misure di liberalizzazione selvaggia.
Lo studio della Polanski, che analizza i vincenti e i perdenti delle liberalizzazioni lanciate con il ciclo di Doha, conferma dati che erano già stati diffusi dall'UNCTAD e dall'UNDP ed arrivano ad alcune conclusioni: i paesi in via di sviluppo saranno verosimilmente i perdenti del gioco, visto che non hanno capacità agricole e industriali per competere con i paesi ricchi; i vincenti saranno proprio i paesi ricchi: gli Stati Uniti, l'Europa e il Giappone, ma anche la Cina.
Il libero commercio produrrà modesti guadagni a livello globale, anche perché i costi di aggiustamento, che i paesi devono affrontare quando si impegnano nel processo di liberalizzazione promosso dai paesi industrializzati, possono essere maggiori dei benefici.
Non si tratta di essere contro il commercio, l'apertura dei mercati può essere anche un efficace strumento di lotta alla povertà, ma come ogni strumento deve essere usato con molta cautela. Bisogna, prima di tutto, mettere in condizione i paesi di fare fronte alle proprie esigenze interne, rafforzando la capacità produttiva in funzione, soprattutto, di obiettivi interni di sovranità alimentare, poi bisogna permettere di far fronte alla concorrenza e alle limitazioni all'atto dell'offerta, fornendo risorse adeguate non presenti al momento nelle prospettive finanziare.
Bisogna, poi, in secondo luogo, lavorare sulla base di calendari realistici, che tengano conto del tempo che gli aggiustamenti strutturali chiedono e, in terzo luogo, bisogna limitare l'apertura del mercato, prevedendo anche meccanismi per sospendere il processo di liberalizzazione, se necessario, e dando la possibilità ai paesi ACP di proteggere le proprie industrie nascenti e strategiche; del resto questo criterio lo abbiamo utilizzato noi stessi durante tutto lo scorso secolo e qualcuno in realtà tenta ancora di riproporlo oggi.
Questi principi sono quasi presenti nella relazione, anche perché queste sono le richieste dei paesi ACP, sono loro che le formulano. Perché un principio effettivo di partership impone di tener conto delle richieste dei nostri interlocutori, soprattutto se giustificate, soprattutto se sostenute dalla società civile in Europa e nei paesi ACP. Anche e soprattutto perché gli accordi di partenariato economico nascono dal quadro legale e istituzionale dell'accordo di Cotonou, firmato dall'Unione europea - lo sottolineo - e hanno come obiettivo ultimo lo sviluppo e la lotta alla povertà.
In base a questo stesso principio di partenariato non abbiamo diritto di imporre accordi. Credo che siano loro a doverlo fare e uno dei punti principali della relazione è la richiesta alla Commissione di studiare fin da subito le alternative affinché i paesi ACP possano, valutando le opzioni, scegliere se firmare o meno tali accordi. La reciprocità, poi, con cui si sta richiedendo l'attuazione delle liberalizzazioni, significa applicare leggi uguali tra soggetti non uguali economicamente e per grado di sviluppo; ciò non porta affatto uguaglianza e democrazia.
Pensare allo sviluppo solo in termini di aumento del prodotto interno lordo in un paese è molto riduttivo. Lo sviluppo è difficile da definire, ma quando nella mia relazione si chiede alla Commissione di proteggere dalla liberalizzazione i settori dell'acqua, della salute e dell'istruzione, si parla sostanzialmente di diritti che devono essere garantiti, come quando si cita la dichiarazione di Città del Capo, l'Assemblea paritetica ACP-UE ha anche la competenza per fissare indicatori di sviluppo per valutare il conseguimento dei risultati e dei negoziati commerciali, chiedendo che si includano gli indicatori sociali e ambientali come la creazione di lavoro dignitoso, la salute, l'istruzione, la parità dei sessi."@lt14
"Signor presidente, onorevoli colleghi, "Mangerai quando sarai competitivo" è lo slogan di un poster: sullo sfondo un ragazzo africano pelle e ossa. La frase è enfatica, ma sembra proprio che l'Unione europea stia, e questo è un eufemismo, sopravvalutando l'efficacia del commercio nella lotta alla povertà.
Si parla di diritti, di quelli stessi diritti per i quali in Europa ci siamo battuti, di quelli stessi valori su cui si fonda l'Unione europea. Il Parlamento europeo non può voler cancellare questi valori. Siamo in un momento cruciale della lotta alla povertà, dobbiamo anche rispondere agli obiettivi che ci siamo posti.
La relazione oggi in discussione è monca, il progetto prevedeva infatti alcuni punti in cui si mettevano in discussione gli effetti della liberalizzazione sull'economia dei paese in via di sviluppo. Diversi studi econometrici, un rapporto di
lo studio
di Sandra Polanski, pubblicato la settimana scorsa, hanno mostrato che molti paesi in via di sviluppo, soprattutto nell'Africa subsahariana, vivrebbero migliori condizioni oggi se non avessimo introdotto misure di liberalizzazione selvaggia.
Lo studio della Polanski, che analizza i vincenti e i perdenti delle liberalizzazioni lanciate con il ciclo di Doha, conferma dati che erano già stati diffusi dall'UNCTAD e dall'UNDP ed arrivano ad alcune conclusioni: i paesi in via di sviluppo saranno verosimilmente i perdenti del gioco, visto che non hanno capacità agricole e industriali per competere con i paesi ricchi; i vincenti saranno proprio i paesi ricchi: gli Stati Uniti, l'Europa e il Giappone, ma anche la Cina.
Il libero commercio produrrà modesti guadagni a livello globale, anche perché i costi di aggiustamento, che i paesi devono affrontare quando si impegnano nel processo di liberalizzazione promosso dai paesi industrializzati, possono essere maggiori dei benefici.
Non si tratta di essere contro il commercio, l'apertura dei mercati può essere anche un efficace strumento di lotta alla povertà, ma come ogni strumento deve essere usato con molta cautela. Bisogna, prima di tutto, mettere in condizione i paesi di fare fronte alle proprie esigenze interne, rafforzando la capacità produttiva in funzione, soprattutto, di obiettivi interni di sovranità alimentare, poi bisogna permettere di far fronte alla concorrenza e alle limitazioni all'atto dell'offerta, fornendo risorse adeguate non presenti al momento nelle prospettive finanziare.
Bisogna, poi, in secondo luogo, lavorare sulla base di calendari realistici, che tengano conto del tempo che gli aggiustamenti strutturali chiedono e, in terzo luogo, bisogna limitare l'apertura del mercato, prevedendo anche meccanismi per sospendere il processo di liberalizzazione, se necessario, e dando la possibilità ai paesi ACP di proteggere le proprie industrie nascenti e strategiche; del resto questo criterio lo abbiamo utilizzato noi stessi durante tutto lo scorso secolo e qualcuno in realtà tenta ancora di riproporlo oggi.
Questi principi sono quasi presenti nella relazione, anche perché queste sono le richieste dei paesi ACP, sono loro che le formulano. Perché un principio effettivo di partership impone di tener conto delle richieste dei nostri interlocutori, soprattutto se giustificate, soprattutto se sostenute dalla società civile in Europa e nei paesi ACP. Anche e soprattutto perché gli accordi di partenariato economico nascono dal quadro legale e istituzionale dell'accordo di Cotonou, firmato dall'Unione europea - lo sottolineo - e hanno come obiettivo ultimo lo sviluppo e la lotta alla povertà.
In base a questo stesso principio di partenariato non abbiamo diritto di imporre accordi. Credo che siano loro a doverlo fare e uno dei punti principali della relazione è la richiesta alla Commissione di studiare fin da subito le alternative affinché i paesi ACP possano, valutando le opzioni, scegliere se firmare o meno tali accordi. La reciprocità, poi, con cui si sta richiedendo l'attuazione delle liberalizzazioni, significa applicare leggi uguali tra soggetti non uguali economicamente e per grado di sviluppo; ciò non porta affatto uguaglianza e democrazia.
Pensare allo sviluppo solo in termini di aumento del prodotto interno lordo in un paese è molto riduttivo. Lo sviluppo è difficile da definire, ma quando nella mia relazione si chiede alla Commissione di proteggere dalla liberalizzazione i settori dell'acqua, della salute e dell'istruzione, si parla sostanzialmente di diritti che devono essere garantiti, come quando si cita la dichiarazione di Città del Capo, l'Assemblea paritetica ACP-UE ha anche la competenza per fissare indicatori di sviluppo per valutare il conseguimento dei risultati e dei negoziati commerciali, chiedendo che si includano gli indicatori sociali e ambientali come la creazione di lavoro dignitoso, la salute, l'istruzione, la parità dei sessi."@lv13
"Signor presidente, onorevoli colleghi, "Mangerai quando sarai competitivo" è lo slogan di un poster: sullo sfondo un ragazzo africano pelle e ossa. La frase è enfatica, ma sembra proprio che l'Unione europea stia, e questo è un eufemismo, sopravvalutando l'efficacia del commercio nella lotta alla povertà.
Si parla di diritti, di quelli stessi diritti per i quali in Europa ci siamo battuti, di quelli stessi valori su cui si fonda l'Unione europea. Il Parlamento europeo non può voler cancellare questi valori. Siamo in un momento cruciale della lotta alla povertà, dobbiamo anche rispondere agli obiettivi che ci siamo posti.
La relazione oggi in discussione è monca, il progetto prevedeva infatti alcuni punti in cui si mettevano in discussione gli effetti della liberalizzazione sull'economia dei paese in via di sviluppo. Diversi studi econometrici, un rapporto di
lo studio
di Sandra Polanski, pubblicato la settimana scorsa, hanno mostrato che molti paesi in via di sviluppo, soprattutto nell'Africa subsahariana, vivrebbero migliori condizioni oggi se non avessimo introdotto misure di liberalizzazione selvaggia.
Lo studio della Polanski, che analizza i vincenti e i perdenti delle liberalizzazioni lanciate con il ciclo di Doha, conferma dati che erano già stati diffusi dall'UNCTAD e dall'UNDP ed arrivano ad alcune conclusioni: i paesi in via di sviluppo saranno verosimilmente i perdenti del gioco, visto che non hanno capacità agricole e industriali per competere con i paesi ricchi; i vincenti saranno proprio i paesi ricchi: gli Stati Uniti, l'Europa e il Giappone, ma anche la Cina.
Il libero commercio produrrà modesti guadagni a livello globale, anche perché i costi di aggiustamento, che i paesi devono affrontare quando si impegnano nel processo di liberalizzazione promosso dai paesi industrializzati, possono essere maggiori dei benefici.
Non si tratta di essere contro il commercio, l'apertura dei mercati può essere anche un efficace strumento di lotta alla povertà, ma come ogni strumento deve essere usato con molta cautela. Bisogna, prima di tutto, mettere in condizione i paesi di fare fronte alle proprie esigenze interne, rafforzando la capacità produttiva in funzione, soprattutto, di obiettivi interni di sovranità alimentare, poi bisogna permettere di far fronte alla concorrenza e alle limitazioni all'atto dell'offerta, fornendo risorse adeguate non presenti al momento nelle prospettive finanziare.
Bisogna, poi, in secondo luogo, lavorare sulla base di calendari realistici, che tengano conto del tempo che gli aggiustamenti strutturali chiedono e, in terzo luogo, bisogna limitare l'apertura del mercato, prevedendo anche meccanismi per sospendere il processo di liberalizzazione, se necessario, e dando la possibilità ai paesi ACP di proteggere le proprie industrie nascenti e strategiche; del resto questo criterio lo abbiamo utilizzato noi stessi durante tutto lo scorso secolo e qualcuno in realtà tenta ancora di riproporlo oggi.
Questi principi sono quasi presenti nella relazione, anche perché queste sono le richieste dei paesi ACP, sono loro che le formulano. Perché un principio effettivo di partership impone di tener conto delle richieste dei nostri interlocutori, soprattutto se giustificate, soprattutto se sostenute dalla società civile in Europa e nei paesi ACP. Anche e soprattutto perché gli accordi di partenariato economico nascono dal quadro legale e istituzionale dell'accordo di Cotonou, firmato dall'Unione europea - lo sottolineo - e hanno come obiettivo ultimo lo sviluppo e la lotta alla povertà.
In base a questo stesso principio di partenariato non abbiamo diritto di imporre accordi. Credo che siano loro a doverlo fare e uno dei punti principali della relazione è la richiesta alla Commissione di studiare fin da subito le alternative affinché i paesi ACP possano, valutando le opzioni, scegliere se firmare o meno tali accordi. La reciprocità, poi, con cui si sta richiedendo l'attuazione delle liberalizzazioni, significa applicare leggi uguali tra soggetti non uguali economicamente e per grado di sviluppo; ciò non porta affatto uguaglianza e democrazia.
Pensare allo sviluppo solo in termini di aumento del prodotto interno lordo in un paese è molto riduttivo. Lo sviluppo è difficile da definire, ma quando nella mia relazione si chiede alla Commissione di proteggere dalla liberalizzazione i settori dell'acqua, della salute e dell'istruzione, si parla sostanzialmente di diritti che devono essere garantiti, come quando si cita la dichiarazione di Città del Capo, l'Assemblea paritetica ACP-UE ha anche la competenza per fissare indicatori di sviluppo per valutare il conseguimento dei risultati e dei negoziati commerciali, chiedendo che si includano gli indicatori sociali e ambientali come la creazione di lavoro dignitoso, la salute, l'istruzione, la parità dei sessi."@mt15
"Mijnheer de Voorzitter, geachte collega’s, “Je eet wanneer je concurrentieel bent”: dat is de slogan op een poster, waarop een Afrikaanse jongen vel over bot staat afgebeeld. Dit is natuurlijk enigszins overtrokken geformuleerd, maar kennelijk overwaardeert - en dit is een eufemisme - de Europese Unie de efficiëntie van de handel in de strijd tegen de armoede.
Men heeft het over rechten, over dezelfde rechten als waarvoor wij in Europa hebben gestreden, over dezelfde rechten als waarop de Europese Unie is gegrondvest. Het is uitgesloten dat het Europees Parlement deze waarden over boord wil gooien. Wij bevinden ons op een cruciaal moment in de strijd tegen de armoede, en wij moeten een antwoord geven op de doelstellingen die wij ons hebben gesteld.
Het onderhavig verslag gaat mank. In het ontwerpverslag stonden enkele punten waarmee de gevolgen van de liberalisatie op de economie van de ontwikkelingslanden werden betwist. Uit diverse econometrische rapporten - een rapport van
en de studie
van Sandra Polanski, die vorige week is gepubliceerd - blijkt dat veel ontwikkelingslanden, met name in het gebied ten zuiden van de Sahara, in betere omstandigheden zouden verkeren indien zij geen ongebreidelde liberalisatiemaatregelen hadden getroffen.
De studie van mevrouw Polanski kijkt naar de winnaars en de verliezers in de met de Doharonde op gang gebrachte liberalisatie. Daarin worden de gegevens bevestigd die reeds waren verspreid door de UNCTAD en de UNDP, en worden bepaalde conclusies getrokken: de ontwikkelingslanden zullen waarschijnlijk aan het kortste eind trekken, aangezien zij geen landbouw- en industriële capaciteiten hebben om met de rijke landen te wedijveren en de rijke landen - de Verenigde Staten, Europa en Japan, maar ook China - zullen juist aan het langste eind trekken.
De vrije handel zal bescheiden winst opleveren op wereldschaal, ook omdat de aanpassingskosten die de landen moeten maken als zij zich op de weg begeven van het door de industrielanden bevorderd liberalisatieproces, soms hoger blijken te zijn dan de voordelen.
Het gaat er niet om of wij voor of tegen de handel zijn. De openstelling van de markt kan ook een efficiënt instrument zijn in de strijd tegen de armoede, maar net als elk ander instrument moet het voorzichtig worden gebruikt. Ten eerste moet men de landen in staat stellen om aan de eigen, interne behoeften te voldoen door hun productiecapaciteit te versterken, uitgaande van vooral interne doelstellingen inzake voedingssoevereiniteit, en pas dan mag men van ze eisen dat ze de concurrentie en de aanbodbeperkingen het hoofd bieden. Daarvoor moeten dan voldoende middelen worden uitgetrokken en die zijn er niet in de financiële vooruitzichten.
Ten tweede moet men werken aan de hand van realistische tijdschema’s, tijdschema’s waarin rekening wordt gehouden met de voor de structurele aanpassingen noodzakelijke tijd, en ten derde moet men de openstelling van de markt beperken door te voorzien in mechanismen waarmee het liberalisatieproces, zo nodig, kan worden opgeschort, en door de ACS-landen de mogelijkheid te bieden om hun eigen opkomende en strategische industrieën te beschermen. Dit criterium hebben wij trouwens zelf gebruikt tijdens de vorige eeuw, en er zijn er die ook nog in deze tijd daarvoor een lans breken.
Deze beginselen zijn min of meer terug te vinden in het verslag, en zijn opgenomen op verzoek van de ACS-landen, die ze ook hebben geformuleerd. Een echt partnerschap betekent immers dat men rekening houdt met de verzoeken van zijn gesprekspartners, met name als ze gerechtvaardigd zijn, als het maatschappelijk middenveld in Europa en de ACS-landen daar steun aan geeft, maar met name ook omdat de economische partnerschapsovereenkomsten ontstaan zijn uit het juridisch en institutioneel kader van de Cotonou-overeenkomst die - let wel - door de Europese Unie is ondertekend en waarvan ontwikkeling en armoedebestrijding het uiteindelijke doel zijn.
Uitgaande van dit partnerschapsbeginsel hebben wij niet het recht om overeenkomsten op te leggen. Mijns inziens moeten de betrokken landen dergelijke overeenkomsten zelf willen. Een van de hoofdpunten uit het verslag is dan ook een verzoek aan de Commissie om van meet af aan de alternatieven te onderzoeken, opdat de ACS-landen opties krijgen en aan de hand daarvan kunnen beslissen of zij de overeenkomsten al dan niet ondertekenen. Men vraagt eveneens om wederkerigheid bij de uitvoering van de liberalisatie. Dat betekent echter dat gelijke wetten worden toegepast op landen die ongelijk zijn wat hun economische en ontwikkelingstoestand betreft. Dat brengt echter geen gelijkheid en democratie.
Als men ontwikkeling alleen maar ziet als een verhoging van het bruto binnenlands product in een bepaald land, doet men de zaak te kort. Het is moeilijk te definiëren wat ontwikkeling is. Wanneer wij echter in mijn verslag de Commissie vragen om de water-, gezondheids- en onderwijssector te beschermen tegen liberalisatie spreken wij in feite over rechten die gewaarborgd moeten worden. Zo noemt men de Verklaring van Kaapstad. De Paritaire Vergadering ACS-EU heeft ook de bevoegdheid om ontwikkelingsindicatoren vast te stellen voor het meten van de resultaten en de vorderingen in de handelsonderhandelingen. Tegelijkertijd wordt aangedrongen op de opneming van sociale en milieu-indicatoren, zoals het scheppen van menswaardige banen, gezondheid, onderwijs en gendergelijkheid."@nl3
"Signor presidente, onorevoli colleghi, "Mangerai quando sarai competitivo" è lo slogan di un poster: sullo sfondo un ragazzo africano pelle e ossa. La frase è enfatica, ma sembra proprio che l'Unione europea stia, e questo è un eufemismo, sopravvalutando l'efficacia del commercio nella lotta alla povertà.
Si parla di diritti, di quelli stessi diritti per i quali in Europa ci siamo battuti, di quelli stessi valori su cui si fonda l'Unione europea. Il Parlamento europeo non può voler cancellare questi valori. Siamo in un momento cruciale della lotta alla povertà, dobbiamo anche rispondere agli obiettivi che ci siamo posti.
La relazione oggi in discussione è monca, il progetto prevedeva infatti alcuni punti in cui si mettevano in discussione gli effetti della liberalizzazione sull'economia dei paese in via di sviluppo. Diversi studi econometrici, un rapporto di
lo studio
di Sandra Polanski, pubblicato la settimana scorsa, hanno mostrato che molti paesi in via di sviluppo, soprattutto nell'Africa subsahariana, vivrebbero migliori condizioni oggi se non avessimo introdotto misure di liberalizzazione selvaggia.
Lo studio della Polanski, che analizza i vincenti e i perdenti delle liberalizzazioni lanciate con il ciclo di Doha, conferma dati che erano già stati diffusi dall'UNCTAD e dall'UNDP ed arrivano ad alcune conclusioni: i paesi in via di sviluppo saranno verosimilmente i perdenti del gioco, visto che non hanno capacità agricole e industriali per competere con i paesi ricchi; i vincenti saranno proprio i paesi ricchi: gli Stati Uniti, l'Europa e il Giappone, ma anche la Cina.
Il libero commercio produrrà modesti guadagni a livello globale, anche perché i costi di aggiustamento, che i paesi devono affrontare quando si impegnano nel processo di liberalizzazione promosso dai paesi industrializzati, possono essere maggiori dei benefici.
Non si tratta di essere contro il commercio, l'apertura dei mercati può essere anche un efficace strumento di lotta alla povertà, ma come ogni strumento deve essere usato con molta cautela. Bisogna, prima di tutto, mettere in condizione i paesi di fare fronte alle proprie esigenze interne, rafforzando la capacità produttiva in funzione, soprattutto, di obiettivi interni di sovranità alimentare, poi bisogna permettere di far fronte alla concorrenza e alle limitazioni all'atto dell'offerta, fornendo risorse adeguate non presenti al momento nelle prospettive finanziare.
Bisogna, poi, in secondo luogo, lavorare sulla base di calendari realistici, che tengano conto del tempo che gli aggiustamenti strutturali chiedono e, in terzo luogo, bisogna limitare l'apertura del mercato, prevedendo anche meccanismi per sospendere il processo di liberalizzazione, se necessario, e dando la possibilità ai paesi ACP di proteggere le proprie industrie nascenti e strategiche; del resto questo criterio lo abbiamo utilizzato noi stessi durante tutto lo scorso secolo e qualcuno in realtà tenta ancora di riproporlo oggi.
Questi principi sono quasi presenti nella relazione, anche perché queste sono le richieste dei paesi ACP, sono loro che le formulano. Perché un principio effettivo di partership impone di tener conto delle richieste dei nostri interlocutori, soprattutto se giustificate, soprattutto se sostenute dalla società civile in Europa e nei paesi ACP. Anche e soprattutto perché gli accordi di partenariato economico nascono dal quadro legale e istituzionale dell'accordo di Cotonou, firmato dall'Unione europea - lo sottolineo - e hanno come obiettivo ultimo lo sviluppo e la lotta alla povertà.
In base a questo stesso principio di partenariato non abbiamo diritto di imporre accordi. Credo che siano loro a doverlo fare e uno dei punti principali della relazione è la richiesta alla Commissione di studiare fin da subito le alternative affinché i paesi ACP possano, valutando le opzioni, scegliere se firmare o meno tali accordi. La reciprocità, poi, con cui si sta richiedendo l'attuazione delle liberalizzazioni, significa applicare leggi uguali tra soggetti non uguali economicamente e per grado di sviluppo; ciò non porta affatto uguaglianza e democrazia.
Pensare allo sviluppo solo in termini di aumento del prodotto interno lordo in un paese è molto riduttivo. Lo sviluppo è difficile da definire, ma quando nella mia relazione si chiede alla Commissione di proteggere dalla liberalizzazione i settori dell'acqua, della salute e dell'istruzione, si parla sostanzialmente di diritti che devono essere garantiti, come quando si cita la dichiarazione di Città del Capo, l'Assemblea paritetica ACP-UE ha anche la competenza per fissare indicatori di sviluppo per valutare il conseguimento dei risultati e dei negoziati commerciali, chiedendo che si includano gli indicatori sociali e ambientali come la creazione di lavoro dignitoso, la salute, l'istruzione, la parità dei sessi."@pl16
"Senhor Presidente, Senhoras e Senhores Deputados, “Comes quando fores competitivo” é o
de um cartaz: como pano de fundo, um rapazinho africano faminto. A frase é muito enfática, mas até parece que a União Europeia – e isto é um eufemismo – está a sobrevalorizar a eficácia do comércio na luta contra a pobreza.
Estamos a falar de direitos – dos mesmos direitos pelos quais nos batemos na Europa, dos mesmos direitos sobre os quais está alicerçada a União Europeia. O Parlamento Europeu não pode querer eliminar esses valores. Estamos num ponto crucial da luta contra a pobreza e temos de alcançar os objectivos que nós próprios estabelecemos.
O relatório hoje em discussão está incompleto e, no projecto, havia, efectivamente, alguns pontos em que eram postos em causa os efeitos da liberalização na economia dos países em desenvolvimento. Diversos estudos econométricos, um relatório da Christian Aid e o estudo intitulado “Vencedores e vencidos”, de Sandra Polanski, publicado a semana passada, revelam que muitos países em desenvolvimento, sobretudo na África subsaariana, viveriam actualmente em melhores condições se não tivéssemos introduzido medidas de liberalização selvagem.
O estudo de Sandra Polanski, que analisa quem fica a ganhar e a perder com as liberalizações lançadas com a Ronda de Doha, vem confirmar dados anteriormente publicados pela CNUCED e pelo PNUD e chega a algumas conclusões: os países em desenvolvimento serão, provavelmente, os que sairão a perder deste jogo, uma vez que não têm capacidade agrícola nem industrial para competir com os países ricos; os vencedores serão, efectivamente, os países ricos: os Estados Unidos, a Europa e o Japão, e também a China.
O comércio livre produzirá lucros modestos a nível global, até porque os custos de ajustamento, a que os países têm de fazer face quando se empenham no processo de liberalização promovido pelos países industrializados, podem ser maiores do que os benefícios.
Não se trata de ser contra o comércio, uma vez que a abertura dos mercados pode também ser um instrumento eficaz na luta contra a pobreza, mas, tal como qualquer instrumento, deve ser usado com grande cautela. Em primeiro lugar, é necessário pôr esses países em posição de fazerem face às suas próprias necessidades internas, reforçando a sua capacidade de produção em função, sobretudo, dos objectivos internos de auto-suficiência alimentar e, em seguida, há que permitir-lhes fazer face à concorrência e às limitações em termos de oferta, fornecendo-lhes recursos adequados, que não figuram neste momento nas Perspectivas Financeiras.
Em segundo lugar, é necessário trabalhar com base em calendários realistas, que tenham em conta o tempo exigido pelos ajustamentos estruturais e, em terceiro lugar, há que limitar a abertura do mercado, prevendo, inclusivamente, mecanismos para suspender o processo de liberalização, se necessário, e dando oportunidade aos países ACP de protegerem as suas próprias indústrias incipientes e estratégicas; aliás, nós usámos esse mesmo critério ao longo de todo o século passado e, na verdade, ainda há quem tente voltar a propô-lo neste momento.
Estes princípios estão quase presentes no relatório, até porque são esses os pedidos dos países ACP, e são esses países que os formulam. Porque um princípio efectivo de parceria exige que tenhamos em conta as exigências dos nossos parceiros, principalmente se forem justificadas e, principalmente, se tiverem o apoio da sociedade civil na Europa e nos países ACP. Também, e sobretudo, porque os acordos de parceria económica resultam do quadro legal e institucional do Acordo de Cotonu, assinado pela União Europeia – chamo a atenção para este aspecto –, e têm como objectivo final o desenvolvimento e a luta contra a pobreza.
Com base neste mesmo princípio de parceria, não temos o direito de impor acordos. Penso que esses países é que devem fazê-lo, e um dos pontos principais do relatório é o pedido à Comissão para estudar desde já as alternativas, a fim de que os países ACP possam avaliar as opções e decidir se pretendem assinar os acordos ou não. Depois, a reciprocidade que está a ser invocada na implementação das liberalizações significa aplicar leis iguais a entidades que não são iguais em termos económicos e de desenvolvimento; não é assim que se produz igualdade e democracia.
Pensar no desenvolvimento só em termos de aumento do produto interno bruto de um país é muito redutor. O desenvolvimento é difícil de definir, mas quando, no meu relatório, se apela à Comissão para que proteja da liberalização os sectores da água, da saúde e da educação, estamos a falar, fundamentalmente, de direitos que devem ser garantidos, como quando se cita a Declaração da Cidade do Cabo. A Assembleia Paritária ACP-UE também tem competência para fixar indicadores de desenvolvimento, por forma a avaliar a consecução de resultados e acordos comerciais, pedindo que sejam incluídos os indicadores sociais e ambientais tais como a criação de trabalho digno, a saúde, a educação e a igualdade dos sexos."@pt17
"Signor presidente, onorevoli colleghi, "Mangerai quando sarai competitivo" è lo slogan di un poster: sullo sfondo un ragazzo africano pelle e ossa. La frase è enfatica, ma sembra proprio che l'Unione europea stia, e questo è un eufemismo, sopravvalutando l'efficacia del commercio nella lotta alla povertà.
Si parla di diritti, di quelli stessi diritti per i quali in Europa ci siamo battuti, di quelli stessi valori su cui si fonda l'Unione europea. Il Parlamento europeo non può voler cancellare questi valori. Siamo in un momento cruciale della lotta alla povertà, dobbiamo anche rispondere agli obiettivi che ci siamo posti.
La relazione oggi in discussione è monca, il progetto prevedeva infatti alcuni punti in cui si mettevano in discussione gli effetti della liberalizzazione sull'economia dei paese in via di sviluppo. Diversi studi econometrici, un rapporto di
lo studio
di Sandra Polanski, pubblicato la settimana scorsa, hanno mostrato che molti paesi in via di sviluppo, soprattutto nell'Africa subsahariana, vivrebbero migliori condizioni oggi se non avessimo introdotto misure di liberalizzazione selvaggia.
Lo studio della Polanski, che analizza i vincenti e i perdenti delle liberalizzazioni lanciate con il ciclo di Doha, conferma dati che erano già stati diffusi dall'UNCTAD e dall'UNDP ed arrivano ad alcune conclusioni: i paesi in via di sviluppo saranno verosimilmente i perdenti del gioco, visto che non hanno capacità agricole e industriali per competere con i paesi ricchi; i vincenti saranno proprio i paesi ricchi: gli Stati Uniti, l'Europa e il Giappone, ma anche la Cina.
Il libero commercio produrrà modesti guadagni a livello globale, anche perché i costi di aggiustamento, che i paesi devono affrontare quando si impegnano nel processo di liberalizzazione promosso dai paesi industrializzati, possono essere maggiori dei benefici.
Non si tratta di essere contro il commercio, l'apertura dei mercati può essere anche un efficace strumento di lotta alla povertà, ma come ogni strumento deve essere usato con molta cautela. Bisogna, prima di tutto, mettere in condizione i paesi di fare fronte alle proprie esigenze interne, rafforzando la capacità produttiva in funzione, soprattutto, di obiettivi interni di sovranità alimentare, poi bisogna permettere di far fronte alla concorrenza e alle limitazioni all'atto dell'offerta, fornendo risorse adeguate non presenti al momento nelle prospettive finanziare.
Bisogna, poi, in secondo luogo, lavorare sulla base di calendari realistici, che tengano conto del tempo che gli aggiustamenti strutturali chiedono e, in terzo luogo, bisogna limitare l'apertura del mercato, prevedendo anche meccanismi per sospendere il processo di liberalizzazione, se necessario, e dando la possibilità ai paesi ACP di proteggere le proprie industrie nascenti e strategiche; del resto questo criterio lo abbiamo utilizzato noi stessi durante tutto lo scorso secolo e qualcuno in realtà tenta ancora di riproporlo oggi.
Questi principi sono quasi presenti nella relazione, anche perché queste sono le richieste dei paesi ACP, sono loro che le formulano. Perché un principio effettivo di partership impone di tener conto delle richieste dei nostri interlocutori, soprattutto se giustificate, soprattutto se sostenute dalla società civile in Europa e nei paesi ACP. Anche e soprattutto perché gli accordi di partenariato economico nascono dal quadro legale e istituzionale dell'accordo di Cotonou, firmato dall'Unione europea - lo sottolineo - e hanno come obiettivo ultimo lo sviluppo e la lotta alla povertà.
In base a questo stesso principio di partenariato non abbiamo diritto di imporre accordi. Credo che siano loro a doverlo fare e uno dei punti principali della relazione è la richiesta alla Commissione di studiare fin da subito le alternative affinché i paesi ACP possano, valutando le opzioni, scegliere se firmare o meno tali accordi. La reciprocità, poi, con cui si sta richiedendo l'attuazione delle liberalizzazioni, significa applicare leggi uguali tra soggetti non uguali economicamente e per grado di sviluppo; ciò non porta affatto uguaglianza e democrazia.
Pensare allo sviluppo solo in termini di aumento del prodotto interno lordo in un paese è molto riduttivo. Lo sviluppo è difficile da definire, ma quando nella mia relazione si chiede alla Commissione di proteggere dalla liberalizzazione i settori dell'acqua, della salute e dell'istruzione, si parla sostanzialmente di diritti che devono essere garantiti, come quando si cita la dichiarazione di Città del Capo, l'Assemblea paritetica ACP-UE ha anche la competenza per fissare indicatori di sviluppo per valutare il conseguimento dei risultati e dei negoziati commerciali, chiedendo che si includano gli indicatori sociali e ambientali come la creazione di lavoro dignitoso, la salute, l'istruzione, la parità dei sessi."@sk18
"Signor presidente, onorevoli colleghi, "Mangerai quando sarai competitivo" è lo slogan di un poster: sullo sfondo un ragazzo africano pelle e ossa. La frase è enfatica, ma sembra proprio che l'Unione europea stia, e questo è un eufemismo, sopravvalutando l'efficacia del commercio nella lotta alla povertà.
Si parla di diritti, di quelli stessi diritti per i quali in Europa ci siamo battuti, di quelli stessi valori su cui si fonda l'Unione europea. Il Parlamento europeo non può voler cancellare questi valori. Siamo in un momento cruciale della lotta alla povertà, dobbiamo anche rispondere agli obiettivi che ci siamo posti.
La relazione oggi in discussione è monca, il progetto prevedeva infatti alcuni punti in cui si mettevano in discussione gli effetti della liberalizzazione sull'economia dei paese in via di sviluppo. Diversi studi econometrici, un rapporto di
lo studio
di Sandra Polanski, pubblicato la settimana scorsa, hanno mostrato che molti paesi in via di sviluppo, soprattutto nell'Africa subsahariana, vivrebbero migliori condizioni oggi se non avessimo introdotto misure di liberalizzazione selvaggia.
Lo studio della Polanski, che analizza i vincenti e i perdenti delle liberalizzazioni lanciate con il ciclo di Doha, conferma dati che erano già stati diffusi dall'UNCTAD e dall'UNDP ed arrivano ad alcune conclusioni: i paesi in via di sviluppo saranno verosimilmente i perdenti del gioco, visto che non hanno capacità agricole e industriali per competere con i paesi ricchi; i vincenti saranno proprio i paesi ricchi: gli Stati Uniti, l'Europa e il Giappone, ma anche la Cina.
Il libero commercio produrrà modesti guadagni a livello globale, anche perché i costi di aggiustamento, che i paesi devono affrontare quando si impegnano nel processo di liberalizzazione promosso dai paesi industrializzati, possono essere maggiori dei benefici.
Non si tratta di essere contro il commercio, l'apertura dei mercati può essere anche un efficace strumento di lotta alla povertà, ma come ogni strumento deve essere usato con molta cautela. Bisogna, prima di tutto, mettere in condizione i paesi di fare fronte alle proprie esigenze interne, rafforzando la capacità produttiva in funzione, soprattutto, di obiettivi interni di sovranità alimentare, poi bisogna permettere di far fronte alla concorrenza e alle limitazioni all'atto dell'offerta, fornendo risorse adeguate non presenti al momento nelle prospettive finanziare.
Bisogna, poi, in secondo luogo, lavorare sulla base di calendari realistici, che tengano conto del tempo che gli aggiustamenti strutturali chiedono e, in terzo luogo, bisogna limitare l'apertura del mercato, prevedendo anche meccanismi per sospendere il processo di liberalizzazione, se necessario, e dando la possibilità ai paesi ACP di proteggere le proprie industrie nascenti e strategiche; del resto questo criterio lo abbiamo utilizzato noi stessi durante tutto lo scorso secolo e qualcuno in realtà tenta ancora di riproporlo oggi.
Questi principi sono quasi presenti nella relazione, anche perché queste sono le richieste dei paesi ACP, sono loro che le formulano. Perché un principio effettivo di partership impone di tener conto delle richieste dei nostri interlocutori, soprattutto se giustificate, soprattutto se sostenute dalla società civile in Europa e nei paesi ACP. Anche e soprattutto perché gli accordi di partenariato economico nascono dal quadro legale e istituzionale dell'accordo di Cotonou, firmato dall'Unione europea - lo sottolineo - e hanno come obiettivo ultimo lo sviluppo e la lotta alla povertà.
In base a questo stesso principio di partenariato non abbiamo diritto di imporre accordi. Credo che siano loro a doverlo fare e uno dei punti principali della relazione è la richiesta alla Commissione di studiare fin da subito le alternative affinché i paesi ACP possano, valutando le opzioni, scegliere se firmare o meno tali accordi. La reciprocità, poi, con cui si sta richiedendo l'attuazione delle liberalizzazioni, significa applicare leggi uguali tra soggetti non uguali economicamente e per grado di sviluppo; ciò non porta affatto uguaglianza e democrazia.
Pensare allo sviluppo solo in termini di aumento del prodotto interno lordo in un paese è molto riduttivo. Lo sviluppo è difficile da definire, ma quando nella mia relazione si chiede alla Commissione di proteggere dalla liberalizzazione i settori dell'acqua, della salute e dell'istruzione, si parla sostanzialmente di diritti che devono essere garantiti, come quando si cita la dichiarazione di Città del Capo, l'Assemblea paritetica ACP-UE ha anche la competenza per fissare indicatori di sviluppo per valutare il conseguimento dei risultati e dei negoziati commerciali, chiedendo che si includano gli indicatori sociali e ambientali come la creazione di lavoro dignitoso, la salute, l'istruzione, la parità dei sessi."@sl19
"Herr talman, mina damer och herrar! På en affisch står det: ”Du får äta när du blir konkurrenskraftig”. I bakgrunden ser man ett svältande afrikanskt barn. Frasen är mycket kraftfull, men det verkar faktiskt som om EU – med en förskönande omskrivning – lägger alltför stor vikt vid effektiv handel i kampen mot fattigdomen.
Vi talar om rättigheter, samma rättigheter som vi har kämpat för i Europa, samma rättigheter som EU grundas på. Det kan inte vara Europaparlamentets önskan att avskaffa dessa värden. Vi befinner oss i ett avgörande skede av kampen mot fattigdomen och vi måste nå de mål som vi har satt upp.
Betänkandet som ska debatteras i dag är ofullständigt. I utkastet fanns det några punkter där avregleringens effekter på utvecklingsländernas ekonomier ifrågasattes. Olika ekonometriska studier, en rapport av Christian Aid och en studie med titeln ”Winners and losers” (Vinnare och förlorare) av Sandra Polanski som publicerades i förra veckan, har visat att många utvecklingsländer, i synnerhet i Afrika söder om Sahara, skulle ha bättre levnadsvillkor i dag om vi inte hade infört otyglade avregleringsmetoder.
I Polanskis studie, där vinnare och förlorare i de avregleringar som lanserades enligt Dohautvecklingsrundan analyseras, bekräftas data som tidigare har publicerats av FN:s handels- och utvecklingskonferens (UNCTAD) och av FN:s utvecklingsprogram (UNDP) och vissa slutsatser dras: Utvecklingsländerna kommer troligen att förlora spelet, eftersom de inte har kapacitet inom jordbruk och industri att konkurrera med de rika länderna. Vinnare blir i själva verket rika länder som Förenta staterna, de europeiska länderna, Japan och även Kina.
Frihandeln kommer att ge blygsamma vinster på global nivå, delvis därför att de anpassningskostnader som länderna måste bära under den avregleringsprocess som främjas av industriländerna, kan bli större än fördelarna.
Det är inte fråga om att vara emot handel, eftersom öppnandet av marknaderna också kan vara ett effektivt instrument i kampen mot fattigdomen, men som varje instrument måste det användas med stor försiktighet. Först och främst är det nödvändigt att skapa förutsättningar för länderna att tillgodose sina egna interna krav genom att skapa ett uppsving för produktionskapaciteten, framför allt genom inhemska mål om självförsörjning av livsmedel. Därefter är det nödvändigt att låta dem ta itu med konkurrens och begränsad tillgång genom att tillhandahålla lämpliga resurser som för närvarande inte finns med i budgetplanen.
För det andra gäller det sedan att arbeta med realistiska tidsplaner, där hänsyn tas till den tid som strukturanpassningen kräver. För det tredje är det nödvändigt att begränsa öppnandet av marknaden och att dessutom fastställa mekanismer för att om nödvändigt uppskjuta avregleringsprocessen. Vi måste också ge AVS-länderna möjlighet att skydda sina egna spirande och strategiska industrier. I varje fall använde vi själva detta kriterium under förra århundradet och vissa försöker fortfarande föra fram det på nytt i dag.
Dessa principer finns i någon mån i betänkandet, delvis därför att det är de krav som ställs av AVS-länderna. Det är dessa länder som ställer kraven. En effektiv partnerskapsprincip innebär nämligen att vi måste ta hänsyn till våra partners krav, framför allt om de är berättigade och framför allt om de stöds av det civila samhället i EU och i AVS-länderna. Detta är viktigt inte minst därför att de ekonomiska partnerskapsavtalen har sitt ursprung i den rättsliga och institutionella ramen för Cotonouavtalet, som har undertecknats av EU. Jag vill betona att deras främsta mål är utveckling och kampen mot fattigdomen.
Partnerskapsprincipen ger oss inte rätt att tvinga fram överenskommelser. Jag anser att AVS-länderna måste ta initiativet. En av huvudpunkterna i betänkandet är kravet att kommissionen omedelbart ska undersöka alternativen, så att AVS-länderna kan utvärdera alternativen och besluta om de ska underteckna avtalen eller inte. Den ömsesidighet som krävs i genomförandet av avregleringarna innebär att jämlika lagar ska tillämpas för länder som inte är jämlika när det gäller ekonomi och utveckling. Det här är inget bra sätt att åstadkomma vare sig jämlikhet eller demokrati.
Att enbart betrakta utveckling som en ökning av ett lands bruttonationalprodukt är mycket inskränkt. Det är svårt att definiera utveckling, men när kommissionen i mitt betänkande uppmanas att skydda vatten, hälsa och utbildning från avreglering, menar vi i grunden rättigheter som måste säkerställas, som när Kapstadsdeklarationen citeras. Den gemensamma parlamentariska AVS–EG-församlingen har också makt att fastställa utvecklingsindikatorer för att utvärdera de uppnådda resultaten och handelsavtalen och kräva att sociala och miljömässiga indikatorer inkluderas, till exempel att skapa värdiga arbetstillfällen, hälsa, utbildning och jämställdhet mellan könen."@sv21
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lpv:unclassifiedMetadata |
"Christian Aid"5,19,15,1,18,14,16,11,3,13,12
"Luisa Morgantini (GUE/NGL ),"5,19,15,1,18,14,16,11,13,12
"Winners and Losers"3
"Winners and losers"5,19,15,1,18,14,16,11,13,12
"relatrice"5,19,15,1,18,14,16,11,13,12
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Named graphs describing this resource:
The resource appears as object in 2 triples